Il Riformista, con il quale ho l’onore di collaborare, si distingue per essere un luogo di effettivo dibattito tra le opinioni anche più divergenti, senza che per questo il giornale rinunzi a prendere posizioni nette, e libere, sui temi più caldi del dibattito politico. È una combinazione molto felice, e anche delicata da mantenere, assolutamente rara nel panorama giornalistico italiano. Per la quale, senza alcuna piaggeria, che come il Direttore ben sa, non mi appartiene, gli sono particolarmente grato.

Questa premessa mi pare doverosa proprio oggi, mentre infuriano le polemiche sulle recenti misure del neogoverno su raduni e rave party. Perché su temi così delicati c’è assolutamente bisogno di dibattiti e di confronti. Ma soprattutto c’è bisogno di evitare scorciatoie retoriche e semplificazioni sloganistiche. Viviamo in una fase estremamente delicata, nella quale ai gravissimi problemi sanitari, geopolitici ed economici, minacciano di aggiungersi tensioni sociali che l’Italia non può permettersi, soprattutto adesso. È proprio di ieri la notizia dell’occupazione del grande raccordo anulare di Roma, fatto che difficilmente può considerarsi evento di cronaca ordinaria.

Ovviamente questa semplice affermazione può già di per sé suscitare reazioni di opposto estremismo “verbale”, in cui ciascuna parte addebita all’altra di aver soffiato sul fuoco o iniziato con le provocazioni. Non possiamo permettercelo. Nella “democrazia delle bolle”, nella quale i diversi orientamenti si amplificano all’interno di circuiti comunicativi autoreferenziali e amplificati dai social, dev’essere interesse di tutti coloro che hanno a cuore il modello di stato liberal-democratico dosare i toni e consentire, anche nel dissenso, il confronto. E, allora, al di là delle posizioni di ciascuno sul merito delle questioni, si può forse trovare un accordo su alcuni dati di fondo. Dati che la polemica infuriante rende paradigmatici di patologie così antiche da non avere né padri e né madri.

La prima patologia è lo stato disastroso di un paese in cui ormai si legifera solo per decreto-legge. Per qualsiasi cosa, su qualsiasi argomento, con buona pace dei padri costituenti, con degenerazioni sempre più gravi da diversi decenni. Il presupposto della necessità e urgenza è morto è sepolto da tempo. Ormai esso consiste in una tautologia: siccome legiferare in modo ordinario è troppo lungo e macchinoso per le esigenze politiche dell’oggi, con accelerazioni sconosciute alla Costituzione del 1948, la necessità e l’urgenza è semplicemente la conseguenza dell’incartamento del sistema istituzionale. Smettiamola con le ipocrisie del gioco delle parti per cui si urla all’abuso quando si è all’opposizione e si abusa quando si è al governo. Lo hanno fatto tutti, su tutti i temi e argomenti, futili e cruciali, governi di sinistra, di centro, di destra, tecnici e non.

La seconda patologia consegue dalla prima: interventi, la sola possibilità di interventi a getto continuo determinano inevitabili problemi di drafting e di coordinamento con il diritto vigente. E non da oggi, né da ieri, né da avant’ieri.

La terza patologia – forse la più grave, perché mina dalle fondamenta la tenuta del sistema democratico – è l’uso partigiano dell’interpretazione costituzionale nel dibattito pubblico. Una Costituzione spesso sconosciuta a chi ne parla, evocata per sentito dire, la quale, per il miracoloso mistero della retorica, guarda caso, direbbe sempre la cosa più conveniente per benedire la tesi alla quale si aderisce.

La disinformazione costituzionale, propalata da addetti ai lavori e non, con la disinvoltura di un sorso di caffè, è un indice grave dell’imbarbarimento cui siamo giunti. E preoccupa perché la faziosità dei chierici e l’opportunismo degli opinionisti (quando ci sono, e purtroppo sempre più spesso ci sono), cui un giornalismo contagiato dal virus del sensazionalismo urlato fa da continua cassa di risonanza, vengono fiutati dall’opinione pubblica. È sorprendente come non ci si renda conto che il saldo di questo stato di cose sia uno scivolamento inesorabile verso il nichilismo civile. Tutto diventa grigio, tutti hanno ragione e torto. L’importante è fare l’ultimo tweet per assestare l’ennesimo colpo all’avversario.

Dimenticando che, al rumore di fondo, anche quando diventa lo scontro di clave, si finisce sempre per abituarsi. E aumenta l’abisso tra la politica e cittadini che sentono salire la rabbia e non sanno nemmeno più da dove provenga. È necessario un patto, prima che sia troppo tardi. Un patto che isoli l’estremismo verbale (ancor prima di quello materiale) da qualsiasi parte provenga; un patto che restituisca alle parole e ai concetti il loro senso e non le deformi solo per la convenienza di soddisfare la bramosia della propria fazione.

Trasformiamo questa vicenda in un’opportunità. Adesso inizierà il dibattito parlamentare. Il primo dibattito di merito di questa legislatura. Mostriamo al paese che siamo in grado di arginare il nichilismo civile, il narcisismo dell’iperbole, l’ipocrisia dell’immacolatezza, che tutti sanno di aver perduto da tempo. Troviamo quell’equilibrio tra la forza delle convinzioni e l’etica della responsabilità verso il paese. Piuttosto che illudere gli altri, e noi stessi, che l’urlo possa diventare ragione. Miglioriamo ciò che c’è da migliorare e accettiamo che la politica è anche temporanea e reversibile vittoria dell’uno sull’altro, rinunciando a evocare l’Armageddon per i vincitori o per i vinti.