Non c’è niente di così scandaloso nella scelta di un quotidiano di far saltare un’intervista scomoda. Fai l’ipotesi che un giornale, per linea consolidata, insegni ai propri lettori che i politici – a parte quelli onesti perché gridano vaffanculo – sono tutti mascalzoni, e che i magistrati – a parte quelli che si permettono di assolvere gli imputati, e sempre che l’assolto non appartenga all’onestà certificata di cui sopra – sono tutti integerrimi. È chiaro che, se la linea è questa, un’intervista a uno che vagheggia – che so? – la necessità di ricordarsi di questa cosa strana che è la presunzione di non colpevolezza, o l’articolo che denuncia lo scandalo di un anziano malato di cancro e senza mezzi privato della pensione, beh, tu lo capisci che sono cose che non vanno bene: e quindi l’intervista non passa e l’articolo nemmeno.

Sono scelte editoriali magari discutibili, ma dopotutto legittime. Vedi Piero Sansonetti, il direttore di questo giornale: lui, che è più elegante di me, non vuole che io chiami Marco Travaglio il “Cazzaro delle Procure”, e quindi se io lo scrivo lui mi taglia. Ne avrà ben diritto, no? E se io mai lo raccontassi in giro lui spiegherebbe che, sul suo giornale, non vuole che siano imitati i modi di alcuni altri, che lui giudica male.

Vale la stessa cosa per l’intervista ad Alfredo Romeo che il Fatto Quotidiano ha deciso di non pubblicare. Quello – con imperdonabile improntitudine – si è rifiutato di rispondere che i magistrati fanno bene a molestarlo da dieci anni e, per soprammercato, ha pure contestato la fondatezza delle accuse che gli rivolgono. Dovevano forse permettergli di lasciarsi andare a simili spropositi sul giornale delle procure – ops, chiedo scusa – di Marco Travaglio? Ovvio che no. E appunto va benissimo, basta tuttavia che il meccanismo, cioè il motivo, sia chiaro: se l’imputato (pardon, l’intervistato) dice cose che non piacciono, o non rispondenti alla verità dell’intervistatore, anziché incalzarlo e contraddirlo si cestina l’intervista oppure la si taglia in forma compiacente alla linea.

Ma bisogna ammetterlo. Se invece la scelta è seppellita sotto giustificazioni avvocatesche o, peggio, è presentata come il frutto di specchiatezza deontologica, tipo che il buon giornalismo deve intervenire – censurando – se l’intervistato parla di “congiura dei pm”, ecco, allora no: perché così quella scelta, legittima in teoria, si camuffa da bugiardissimo atto dovuto, senza neppure il coraggio di dimostrarsi per quel che è veramente e cioè un libero atto di sorveglianza che tiene lontane le parole sgradite.

Poi, d’accordo, qui siamo in conflitto di interessi. Io, per esempio, guadagno moltissimi soldi per questi articoli, chiaro dunque che mi affretto a fare le pulci a chiunque parli male dell’editore di questo giornale. Però sono sicuro che se dovessi intervistare Marco Travaglio che dà del verme a un suo collega il Riformista non taglierebbe niente.