Tre anni fa la Russia invadeva l’Ucraina. Ora ci avviciniamo a una possibile fine negoziata del conflitto – o quantomeno a una pausa per riorganizzare gli arsenali – in un mondo profondamente cambiato, anche se alcuni politici e molti operatori di mercato faticano ancora a coglierne la portata. L’inflazione, ci dicono le banche centrali, sarebbe dovuta finire con lo shock iniziale sui prezzi dell’energia causato dalla guerra. Eppure il sondaggio dell’Università del Michigan di venerdì scorso ha rilevato che le aspettative di inflazione a 5-10 anni dei consumatori statunitensi sono salite al 3,5%, il livello più alto degli ultimi trent’anni. Nel frattempo una nuova serie di ordini esecutivi, firmati venerdì dalla Casa Bianca in materia di politica economica e commerciale, minaccia di sconvolgere ulteriormente il sistema finanziario globale, riportandoci non agli anni ’90, né agli ’80, ma forse addirittura agli ’80 dell’Ottocento.

Con la strategia dell’“America First Investment Policy”, gli Stati Uniti affermano che “la sicurezza economica è sicurezza nazionale” e che “investire a tutti i costi non è sempre nell’interesse nazionale”. Il risultato? L’agenzia statunitense di screening sugli investimenti esteri bloccherà quelli cinesi nei settori tecnologico, agroalimentare, minerario, delle risorse naturali, dei porti e dei terminal marittimi. Washington accelererà gli investimenti tecnologici amici, a patto che si dimostrino indipendenti da Pechino, e userà tutti gli strumenti legali necessari per scoraggiare gli investimenti nel settore militare-industriale cinese, che riguarda praticamente tutto il comparto tecnologico.

Un altro punto chiave è il trasporto marittimo. La proposta dell’ufficio del rappresentante per il commercio degli Stati Uniti prevede una tariffa d’ingresso per le compagnie di navigazione cinesi o che utilizzano navi costruite in Cina: 1.000 dollari per tonnellata netta, fino a un milione di dollari. Questo potrebbe spingere verso una netta separazione delle flotte, come avviene già con il traffico della cosiddetta shadow fleet per il petrolio russo. Gli Stati Uniti imporranno anche quote sulle esportazioni marittime. Le conseguenze economiche sono enormi: gli esperti del settore stimano un aumento dei costi di trasporto tra il 15 e il 20%.

Si delinea così una grande strategia macroeconomica che sembra più “Usa + alleati contro Cina” che “Usa da soli”, costringendo molti paesi a scegliere da che parte stare. Il Messico, ad esempio, è stato invitato ad alzare le tariffe doganali sui prodotti cinesi in cambio della rinuncia da parte di Washington a introdurre dazi sulle sue esportazioni. Seguirà il Canada?

Intanto le elezioni in Germania hanno portato a un risultato che rende inevitabile una coalizione Cdu-Spd, dopo che il partito di estrema sinistra Bsw e i liberali dell’Fdp hanno mancato di poco la soglia del 5% per entrare nel Bundestag. Il probabile cancelliere Friedrich Merz, nonostante le congratulazioni ricevute da Trump, ha già dichiarato che la Nato “potrebbe presto essere morta”; l’Europa ha bisogno di “autonomia strategica”; la Germania deve diventare “indipendente dagli Usa”. Ciò significa il ritiro dei 50mila soldati americani di stanza in Germania?

Per ora, Berlino chiede che Francia e Regno Unito estendano il loro ombrello nucleare. Ma governare per Merz sarà un incubo: riforme fiscali accantonate, fondi per la Bundeswehr difficili da reperire e un Bundestag in cui la coalizione di governo avrà una maggioranza risicata di soli 13 seggi su 630. Inoltre, Cdu e Spd non hanno i numeri per riformare il freno al debito senza il sostegno della sinistra radicale, che ha già bocciato l’ipotesi di un fondo speciale per la Difesa.  Ironia della sorte, l’unica via per aumentare le spese militari resta un fondo europeo per la Difesa. In ogni caso, è impensabile finanziare la Bundeswehr con fondi Ue. I mercati hanno reagito alle elezioni tedesche con un rafforzamento dell’euro. Ma in un contesto di strategie economiche in collisione, questa reazione appare poco logica. Non sorprende, considerando che molti investitori ragionano ancora con schemi ormai obsoleti.

Nell’attuale contesto di caos e frammentazione, quale ruolo potrebbe spettare all’Italia? Forse uno limitato dentro i confini europei. Berlino rimarrà probabilmente in preda alla confusione e prediligerà la comfort zone, ossia l’asse con Parigi al quale potrebbe unirsi Londra, uscita malconcia dalle prime relazioni urticanti con Washington. Lo spazio di manovra di Roma appare inoltre appesantito dai vincoli legati al Pnrr. Forse cambiare totalmente prospettiva e concentrarsi su Medio Oriente e Africa potrebbe essere una strada per iniziare a costruire uno standing agli occhi di Washington. Ma per ottemperare a questo ruolo occorrerà maturare una politica e stanziare risorse. Sull’Africa la strada potrebbe passare per la selezione di alcuni paesi con cui lavorare, seguendo l’esempio di Ankara. Sul Medio Oriente si potrebbe passare per accordi con i paesi del Golfo. Uno snodo, però, che richiederebbe un cambio di passo istituzionale.