La strage di Cutro
Tutti i soldi necessari per non farli morire

Bisogna spendere. Bisogna pagare. Bisogna metterci la volontà, il lavoro, gli uomini, le tecnologie: e appunto i soldi. Tutti i soldi, che poi non sarebbero nemmeno tanti, necessari a impedire che la dimora dell’affamato, del profugo, del disperato che prova a raggiungere le nostre coste diventi il sacco di plastica che ne avvolge il cadavere.
Il grappolone di morti dell’altro giorno, l’ennesimo che va ad aggravare l’architettura dei mancati salvataggi da cui ne pendono venticinquemila (ripetiamolo: venticinquemila) in un decennio di spallucce e braccia allargate, va sul conto di una decisione che non è meno decisiva solo perché non è brutalmente formalizzata: e cioè la decisione di non destinare risorse a quel fine, al fine di salvare questa gente. Qui non si tratta di indugiare sul fatto che rimaneggiamo demagogicamente e ipocritamente ogni volta, a ogni registrazione dell’ennesima tragedia, a ogni fornitura di carne morta sulle nostre spiagge, vale a dire il fatto che fosse o no “possibile” che andasse altrimenti. Non dobbiamo domandarci se si poteva evitare: ma se si doveva.
Intestare il principio dell’intervento del nostro Paese alla “possibilità” di salvare quelle persone è un’operazione bugiarda: occorre intestarlo al dovere di salvarle, ciò che politicamente e civilmente è una cosa molto diversa. Quando non si può, è molto spesso perché si ritiene di non dovere. Quanto non si poteva, era perlopiù perché non si sentiva di dovere. E quando non si potrà ancora, sarà ancora per la mancata assunzione di quel dovere. Non è questione di adempiervi: è questione di assumerlo veramente.
Altrimenti il dovere teorico e comiziale di salvarli si presterà sempre alla frustrazione concreta, al trionfo revocatorio e falso del “non si poteva”. Dobbiamo decidere: è giusto pagare per il dovere di salvarli? L’alternativa c’è: decidere che è giusto far pagare a loro che “non si può”. Ed è quello che finora abbiamo deciso.
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