Letture
Lo scaffale
Un genio chiamato Daniele Del Giudice, il commovente racconto sulla sua arte
La carriera dell’autore, raffinato e innovativo, fu interrotta tragicamente presto da una terribile malattia. Il mondo che ha fatto, dell’amico Roberto Ferrucci, è un omaggio che restituisce il ritratto dello scrittore

Nella vita della letteratura, più che nella “storia” della letteratura, poche cose sono più struggenti della figura di Daniele Del Giudice: questo grandissimo scrittore, troppo presto ammalatosi di una tremenda malattia che ne inibì i movimenti e poi il cervello – a uno come lui – e lo condusse infine alla morte quattro anni fa. Roberto Ferrucci, scrittore più giovane che ne era diventato amico, ha scritto dunque su Del Giudice un bellissimo, commovente libro, “Il mondo che ha fatto” (La Nave di Teseo), nel quale si restituisce l’idea di questo narratore geniale come pochissimi altri nell’ultimo mezzo secolo.
Questo è il libro di un amico ma anche un formidabile compendio dell’arte di Del Giudice che, seppure abbia scritto relativamente poco, anzi, forse proprio perché scrisse poco, ci ha lasciato ogni pagina, ogni riga letterariamente magica: lo intuì Italo Calvino, che scrisse la quarta di copertina del primo romanzo, “Lo stadio di Wimbledon“, il libro che folgorò l’allora studente Ferrucci. Il quale lo venne a conoscere nella loro Venezia (Del Giudice era nato a Roma ma scelse di vivere a Venezia, una città per lui viva e allegra, «bisognerebbe chiedere i danni agli eredi di Thomas Mann…») e riuscendo nella non facilissima impresa di far nascere un’amicizia vera. Si accumulava in quegli anni tutto un materiale scritto e orale, registrato sulle vecchie audiocassette o scarabocchiato su un foglietto. Insomma, come disse lo scrittore, «quello che ho fatto», frase che origina il titolo del libro di Ferrucci, che oltre che un gigantesco lascito di amicizia è un’opera di devozione intellettuale e di scavo nella complessa letteratura delgiudiciana, unica nel panorama – già generalmente innovativo – di quella generazione che si affacciò alla fine dei Settanta, i Tabucchi, i De Carlo, i Tondelli.
Capire Del Giudice implica uno sforzo intellettuale notevole, e non perché la sua prosa sia “difficile” – «uno scafo elegante», la definì una volta un Asor Rosa, peraltro piuttosto freddino – ma perché si tratta di una letteratura che contiene o poggia su vari strati filosofici. «Tutte le nostre percezioni sono percezioni anche intellettuali», disse parlando, per distinguersene, di Calvino, al quale venne associato perché è sempre facile la tentazione di dire “questo assomiglia a…”. Tutto, anche un’amicizia, anche la politica, anche un’avventura sono esperienze intellettuali: non parliamo poi del volo (“Staccando l’ombra da terra”), della vista (“Nel museo di Reims”), della ricerca (“Lo stadio di Wimbledon”) o della scienza (“Atlante occidentale”). Venezia, certo, e poi Trieste, la Trieste trasparente de “Lo stadio di Wimbledon”, dove il Narratore va dietro le tracce del leggendario Bobi Bazlen.
Città, immagini, parole: Ferrucci riporta in queste pagine lontane conversazioni perdute e ritrovate, ricordi di momenti vissuti e chiacchierate nei bar, e noi vediamo nel pieno della sua forza – diremmo del suo entusiasmo intellettuale – questo giovane letterato colto che sembra un po’ Leopardi, un po’ Piero Gobetti del nostro tempo. C’era infatti in lui molto di “militante” (non nel senso politico ma in quello letterario). A proposito del primo romanzo, “Lo stadio di Wimbledon”, scrive della necessità di una «ripresa forte della narrazione»: e la trova scrivendo con un libro in qualche modo metafisico. E di «passioni forti» parlerà anche per “Atlante occidentale“, smentendo la chiacchiera dell’autore “freddo” e cerebrale che solo il lettore superficiale può pensare di aver individuato, perché i suoi romanzi sono intrinsecamente forti, e forti sono le ragioni morali che sottendono a quelle pagine.
E poi, inevitabilmente, ci sono i ricordi drammatici di Ferrucci che assiste ai primi impappinamenti nel parlare del grande scrittore, i vuoti, le incertezze crescenti. Insomma, quell’avanzare del buio nella mente del grande scrittore e fino al ricovero, alle visite che non si vorrebbero mai fare, alla luce che si spegne. «Alla reception ci dicono che lui è al bar, laggiù a sinistra. Il bar è una sala con qualche tavolo e due distributori automatici in un angolo. Al tavolo con lui c’è un nostro amico che appena ci vede gli dice “Guarda chi è venuto a trovarti, i tuoi amici scrittori”. Lo saluto, lui mi guarda, sorride, si alza e mi abbraccia esclamando “e questo chi è”».
Un pugno nello stomaco. Una volta Del Giudice disse a Ferrucci: «Alla memoria bisogna avvicinarsi con delicatezza. Soprattutto in questo caso (si riferisce al “Lo stadio di Wimbledon”, ndr), dove i personaggi di finzione erano al contempo personaggi reali. Poterli chiamare con i loro nomi anagrafici era un punto di forza che dava una specie di garanzia all’invenzione romanzesca. Era un vero percorso e un vero rapporto, rapporto con figure della memoria e del presente». Alla memoria di Daniele Del Giudice questo libro di Roberto Ferrucci si accosta, appunto, con delicatezza e l’inevitabile rimpianto.
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