«Posso essere provocatorio? Perché non sperimentare in Africa il vaccino contro la tubercolosi che pare possa garantire maggiore resistenza al Coronavirus? Lì non ci sono né mascherine, né trattamenti speciali, né tantomeno cure. Del resto lo abbiamo già fatto con l’Aids e con le prostitute che notoriamente sono molto esposte e non si proteggono. Cosa ne pensa?». «Come no? Lei ha ragione. Anzi, ci sono degli studi in corso».  A vaneggiare così, qualche giorno fa, non sono due amiconi al cellulare, bensì un paio di medici fra i più qualificati di fronte alle telecamere della Lci, importante televisione francese.

Poteva sembrare una notizia inventata fra le tante che scaturiscono, non solo in questi giorni, dal magma informatico. Invece è tutto vero: il filmato inchioda i diretti interessati, che poi hanno chiesto scusa: Jean-Paul Mira, primario nel reparto di terapia intensiva all’ospedale Cochin di Parigi e Camille Locht, direttore di ricerca all’istituto nazionale della sanità pubblica. Basta guardare la registrazione per restare di stucco. I primi a protestare sono stati alcuni campioni di calcio africani, da Demba Ba a Samuel Eto’o fino a Didier Drogba, i quali non le hanno certo mandate a dire, ma poi si è mosso il presidente dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, Adhanom Ghebreyesus, ex ministro etiope, stigmatizzando il siparietto e parlando apertamente di razzismo, finché perfino il ministero degli Esteri transalpino ha dichiarato che le posizioni espresse da quei medici non riflettono quelle ufficiali governative.

Tutto risolto? Sarebbe bello poter dire di sì, ma un episodio come questo ci fa capire che gli spettri del vecchio colonialismo si agitano ancora sotto le coltri delle moderne democrazie occidentali lasciando presumere il compito rimasto incompiuto: non si raggiunge una vera civiltà dei diritti se ci si limita a garantire i servizi essenziali. Basta essere andati anche una sola volta a Saint Denis, uno dei quartieri della capitale francese, per comprenderlo. In apparenza ci sarebbe tutto quel che serve: scuole, biblioteche, campi sportivi. Ma l’atmosfera che vi si respira, è quella della separazione identitaria, della brace sotto la cenere. Occorre lavorare nella testa delle persone e questo può avvenire soltanto di fronte all’esperienza concreta della relazione umana.

Altrimenti il rischio è quello di coltivare polli d’allevamento, come i due cosiddetti “scienziati” che si sono resi protagonisti della clamorosa gaffe mediatica, i quali mentre dialogavano, appoggiando l’uno la tesi dell’altro, non si rendevano conto di scivolare nel pantano. In realtà diversi stati africani in questo momento assomigliano a polveriere sul punto di esplodere. Qualche settimana fa una ragazza gambiana, studentessa in Gran Bretagna, è tornata nel paese natale, una striscia di terra all’interno del Senegal, mostrando sintomi compatibili con quelli della pandemia. Insieme a lei sull’aereo c’erano una quarantina di persone che potrebbero essere state contagiate. Dopo l’arrivo a Banjul si sono disperse nelle località da cui provenivano. Le autorità hanno cercato di rintracciare i passeggeri nel tentativo di metterli in quarantena. Ma laggiù i protocolli non sono quelli europei.

Consegnare una saponetta ad ogni capo villaggio affinché la ponga all’entrata del paese potrebbe essere il massimo consentito, nella speranza che il virus non aggredisca la popolazione perché in quel caso la situazione precipiterebbe. L’Europa, di fronte all’emergenza sanitaria, si sta chiudendo a riccio in una difesa dei singoli confini nazionali. Ma ciò che molti stanno dicendo in questi giorni sull’impossibilità di mettersi in salvo da soli riguarda l’intero pianeta, chiamando in causa equilibri mondiali. Se gli stati industrializzati non intervengono nei paesi poveri con massicci sostegni alle strutture ospedaliere, il virus si espanderà senza freni da lì verso di noi: questa dovrebbe essere la maggiore preoccupazione degli specialisti, invece di fare battute sull’Africa come luogo di sperimentazione dei vaccini anti covid-19.