Mentre tra i 5 Stelle finisce a carte bollate tra sospiri e rimpianti, la maggioranza torna sul pallottoliere. Non come nel Conte 1 o 2. Ma la navigazione soprattutto nel giorno per giorno non potrà essere affidata ad un pilota automatico. La strappo che si è consumato mercoledì sera al Senato dove sono mancati i voti di 21 senatori grillini scombussola i numeri, apre territori di incertezza, tratteggia paludi. E il governo Draghi, il governo del Paese invece è nato per fare nei prossimi dodici, sedici mesi scelte che condizioneranno i prossimi trent’anni. È il governo della vita dopo la pandemia e della “Nuova ricostruzione” come in un secondo dopoguerra. In una parola, non può perdere tempo sul pallottoliere su ogni votazione, in aula o in commissione che sia.

Succede che ieri mattina l’ineffabile capo politico – eterno reggente ma sempre al suo posto – Vito Crimi ha pubblicato un post di una trentina di righe in cui spiega perché vengono espulsi 15 senatori e molto probabilmente altri sei che non si sono presentati in aula. Sono tutti “colpevoli” di non aver votato la fiducia al governo Draghi. Prima di raccontare l’ennesimo giorno di travaglio tra i 5s che ormai si ripete dall’inizio della crisi come in un maledetto Giorno della marmotta, è necessario mettere in fila i numeri e vedere le loro proiezioni. Partendo da un punto: la maggioranza Draghi in aula non è in discussione forte di 262 voti al Senato (su 315) e circa 570 alla Camera (su 630). Ci sono due “però”. Il primo riguarda le commissioni parlamentari. Il secondo, se e qualora mai il premier dovesse iniziare a scontentare qualcuno nel suo governo del Paese. Restiamo a palazzo Madama che è sempre la cartina di tornasole delle maggioranze.

L’espulsione dei 15 senatori pentastellati che hanno votato contro la fiducia e (gli altri sei in arrivo perchè assenti ingiustificati) fa dimagrire il gruppo M5s Senato che passa da 92 a 77 (o 71) senatori. A questo punto il famigerato intergruppo Pd-M5s-Leu nato al Senato per rivendicare l’alleanza e l’operato del Conte 2 e far vedere, con i numeri, che il traino del governo Draghi sta a sinistra e non nel centrodestra, perde peso e dominio. La somma dei senatori Pd (35), Leu (4, sarebbero 6 ma due hanno votato no) e M5s (77 o 71) a questo punto conta 116 o 110 senatori (a seconda del numero delle espulsioni). Sono più o meno i numeri della componente di centrodestra del governo Draghi: Forza Italia e Lega arrivano a 115 senatori. Con numeri del genere e venti mine vaganti (gli espulsi 5 Stelle) che possono votare in libertà, diventa difficile la gestione di dossier delicati su lavoro e giustizia. Si temono linee di frattura trasversali ai gruppi che potrebbero paralizzare il lavoro quotidiano nelle Commissioni. Non è l’aula in discussione, bensì il giorno per giorno dove potrebbero tornare ago della bilancia i 20 espulsi grillini. O 18 senatori di Italia Viva. Un paradosso al cubo.

Nessuno staccherà mai la spina a questo governo visto che dalla prossima volta in Parlamento ci saranno 600 posti invece di 930. Però si sta creando una situazione di rallentamento, della squadra e dell’azione di governo. Il sottosegretario Garofoli è al lavoro per incastrare le 40 caselle del sottogoverno. Tolta la decina di competenza di Draghi, sulle altre trenta c’è un grande affollamento. «Sarebbe stato meglio evitare le espulsioni, ma che ci possiamo fare? Sono le nostre assurde regole dettate dal cappio di Rousseau…» scuoteva la testa ieri mattina un deputato 5 Stelle con un incarico pesante. Ma le espulsioni sono partite puntuali come una cambiale. Ieri mattina poco prima delle 11 sulla pagina Facebook del capo politico Vito Crimi è comparsa la ferale sentenza. «Espulsi. Dal gruppo al Senato e dal Movimento – ha scritto Crimi – nessuno di noi ha votato Sì al nuovo governo a cuor leggero ma così hanno deciso gli iscritti partecipando al referendum su Rousseau e facendo una scelta di responsabilità che va oltre gli interessi del Movimento».

Tra gli espulsi ci sono nomi pesanti come Nicola Morra, Barbara Lezzi, Elio Lannutti, Virginia La Mura che contestano l’espulsione («il regolamento vincola il voto al premier indicato dai 5 Stelle») e rilanciano. «Mi candido al Comitato direttivo a 5 – annuncia la senatrice Barbara Lezzi – nella quota di quel 40% dei nostri iscritti che hanno detto no al governo Draghi». Tutti si stanno rivolgendo all’avvocato: «Non ci possono cacciare, noi non abbiamo tradito alcun mandato». Morra è allibito: «Io sono grillino dentro. E non voglio uscire». Pronti al No a Draghi anche una decina di deputati. Tra le tante spaccature nel Movimento viste in Parlamento dal 2013 a oggi, questa è quella che senza dubbio assomiglia di più a una scissione. Era prevista. Ma dovrebbe essere l’ultima.

Dipende tutto dalla pazienza e dal bilancino di Draghi. Che deve tenere d’occhio anche il centrodestra che si è spaccato lasciando a Fratelli d’Italia l’opposizione e le porte aperte ai delusi da Salvini (si tratta di un paio di amministratori locali). Mentre Matteo Renzi fermo sul fiume osserva «affascinato la repentina mutazione del quadro politico». Si aprono grandi praterie al centro. «Avanti tutta» dice il leader di IV «che il meglio deve ancora venire». Sono i primi passi della costruzione di un nuovo spazio politico aperto a riformisti ed europeisti.

Avatar photo

Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.