E sul traguardo, il cavallo vincente… Pronti a festeggiare uno storico 5 su 5, dei film italiani in concorso a Venezia, i fratelli Fabio e Damiano D’Innocenzo lasciano sospeso il giudizio. Perché il loro America Latina (ieri in concorso, il quinto e ultimo della compagine tricolore) non va, un po’ per natura e un po’ per responsabilità, dritto al punto. E, anche dopo averlo visto, resta un misterioso oggetto di cinema. Come sempre è stato, dall’annuncio della sua partecipazione al festival. Storia oscura, nello stile degli autori («ha a che fare con la psicologia e il mistero»). Titolo fuorviante («è un non luogo. L’America rappresenta un sogno di fanciulli») .

Elio Germano al centro del progetto («per il suo personaggio, gli abbiamo dato un ampio background. Ma il suo “vestito” era molto largo»). Tutto vero, tutto come promesso. Però, arrivati ai titoli di coda, c’è poco più di queste premesse vaghe. Un dentista stimato, bella casa (con piscina e giardino, niente vicini a turbarne la tranquillità) e bella famiglia (una moglie, due figlie, tre cani), scende in cantina e scopre l’inaudito. Da quel momento, lo sprofondo sarà senza fine. I gemelli D’Innocenzo sono maestri a creare atmosfera e tensione. A prendere a picconate la famiglia e l’istituzione borghese. Raccontano anche qui una favolaccia sporca (umida, soprattutto. Visto che l’acqua — stagnante — ha un ruolo). Come già nel precedente Favolacce. Ma se lì, lo strepitoso finale domestico riassumeva al meglio lo spirito e le sensazioni dei due autori, la chiusa di America Latina, non concretizza le inquietudini sparse per strada.
Elio Germano è forza della natura. L’inside out degli attori italiani. Chiedigli una emozione, lui sa come si fa. Qui, il bagaglio è colmo di disperazione, smarrimento, angoscia, frustrazione. «Il cinema italiano, da sempre è pieno di energia e di talenti. Anche se non sempre vengono riconosciuti dai committenti» spiega Germano.

Per chi fa questo mestiere «il pericolo – continua – è dimenticare la propria vocazione artistica, in nome della fama e del successo». Senza Germano, il film difficilmente sarebbe lo stesso. E questo la dice lunga. È stato premiato a Berlino (Volevo nascondermi) e a Cannes (La nostra vita). Mai profeta in patria. Potrebbe essere la volta buona, proprio con i D’Innocenzo. Che lui non smette di stimare: nel cinema «bisogna tornare a mettere al centro la ricerca. In questo, Damiano e Fabio sono una garanzia». E sono anche molto simpatici: «Noi qui a Venezia? Ci sentiamo come se fossimo ladri, che hanno scassinato il database del direttore Barbera per potere partecipare alla Mostra». Fabio e Damiano ragionano sulla medesima lunghezza d’onda. Tanto da esprimersi, spesso, al plurale. Inutile distinguere ciò che dice l’uno o l’altro. Il pensiero è comune. Detto con quel fare stropicciato («basta artisti con la sciarpetta»), che già li identifica: «Riteniamo che il cinema debba essere scarnificato, arrivare all’osso e al simbolo. America Latina è scuro, solo all’apparenza. Non amiamo i film che fanno propaganda di felicità — proseguono -. Cerchiamo di infondere dolcezza dando poco, senza esibire. In noi c’è molta istintualità, già in fase di scrittura. Allo spettatore, lasciamo libertà di interpretazione».

Si capirà meglio quanto il pubblico sia disposto a farsi (non) guidare, da una espressione filmica certo non routinaria e, comunque, non priva di fascino. America Latina esce il prossimo 25 novembre. Si fa presto a dire “cinema civile”. L’etichetta, spesso è assegnata a sproposito. Il polacco Zeby Nie Bylo Sladow (Non lasciare tracce) passato ieri in concorso, rispecchia la categoria nella sua accezione più pura. Il regista Jan P. Matuszynski si concentra esclusivamente sul terribile fatto (realmente accaduto, in Polonia nel 1983) di Storia della patria, che sente la necessità di tramandare. La milizia pesta a morte lo studente di liceo Grzegorz Przemyk. L’unico testimone è un amico. Che lotterà contro il sistema, per essere ascoltato. Non c’è posto per un bacio rubato, una battuta, un attimo di spensieratezza. Niente che permetta allo spettatore di rifiatare, a fronte di una storia durissima, mostrata nel dettaglio grazie a una orchestrazione efficace, rigorosa e dilatata nel tempo. 160 minuti. Una durata importante, destinata a essere superata già oggi dalle tre ore e mezza del filippino (in gara) On the Job – The Missing 8, di Erik Matti. Il connazionale Lav Diaz, nel 2016 aveva vinto il Leone d’oro con The Woman Who Left. Opera fiume, venti minuti più lunga del film di Matti. Che confida in una giuria altrettanto disponibile. Qui al Lido, la sfida fra amici cinefili è a chi resiste di più in sala, alla proiezione di On The Job.

A proposito di amicizia. È il legame interpersonale che più balza agli occhi, in questa ultima giornata prima della premiazione di domani. Fuori concorso arrivano The Last Duel, ultima fatica di Sir Ridley Scott e Ennio, documentario di Giuseppe Tornatore. Il primo, riunisce davanti alla macchina da presa i compagnoni Ben Affleck e Matt Damon, in una storia d’armi e cavalieri. Ma soprattutto ricompone, più di venti anni dopo, il vincente team di scrittori di Will Hunting-Genio ribelle. Il successo di Gus Van Sant, che lanciò la carriera dei giovani Affleck e Damon. Da quell’Oscar, conquistato nel 1998 per la sceneggiatura originale, non si sono più fermati e non hanno più firmato uno script insieme. Ennio invece, è la dedica di Tornatore al maestro Ennio Morricone.

Infinite volte, compagno di lavoro del regista siciliano. Che, amichevolmente, con il suo ricchissimo documentario di quasi tre ore si rivolge al grande compositore – scomparso la scorsa estate – con il nome di battesimo per titolo. Fanalino di coda del concorso, che oggi chiude i battenti, è il francese Un autre monde di Stephane Brize. Comunque vadano gli ultimi arrivati, agli occhi di pubblico e critica, il giudizio sulla Selezione 2021 è già scritto. Oltre i voti (8,5) e gli aggettivi (eccellente), valga l’espressione “cavallo vincente”.