Da quando la parola Mezzogiorno è stata soppressa dalla Costituzione nel 2001 il recupero degli squilibri economici e sociali è rimesso all’introduzione contestuale di alcuni principi costituzionali che fanno leva sulla costruzione di indicatori di tipo aziendalistico (a partire dai livelli essenziali delle prestazioni). In teoria i parametri sono più stringenti di prima, ma in pratica tutti sanno che nel frattempo il divario con il resto del paese non ha fatto altro che aumentare. La spiegazione risiede in diversi ed eterogenei fattori, che qui tralasciamo di richiamare, salvo che per un cenno finale.

Oggi esiste una consapevolezza nuova dell’opinione pubblica meridionale per le sorti del Mezzogiorno, che nel frattempo ha perduto definitivamente in un ventennio un milione di giovani, e quindi un pezzo del suo futuro. Non c’è dubbio che il governo Draghi abbia mostrato fin dall’inizio un’attenzione particolare, e non rituale, ai problemi del Mezzogiorno, inquadrati correttamente come una grande questione nazionale. Nella sua qualità di Governatore della Banca d’Italia Draghi si era soffermato spesso sui costi economici e sociali dell’arretratezza di questa parte d’Italia, tenendosi lontano dalle retoriche ed attingendo a piene mani a ricerche e dati ricavati dall’eccellente servizio studi dell’istituzione che presiedeva. Quell’impostazione oggi si è tradotta in scelte di governo non scontate, a partire da quella fondamentale di vincolare a favore del Sud il 40% delle risorse del “Piano nazionale di ripresa e resilienza” per tutti gli obiettivi che esso contempla. Si tratta di una proporzione superiore a quella dei meridionali residenti, costantemente decrescenti.

Una soluzione nient’affatto obbligata ma frutto di una precisa scelta politica per aggredire un problema la cui mancata soluzione ha comportato spesso in passato parole di sconcerto e deprecazione perfino nella Commissione europea. Il Mezzogiorno inoltre beneficerà dei Fondi di Sviluppo e Coesione (con i quali sarà finanziato un grande piano strade che, secondo le prime indicazione, riserverà l’80% delle risorse alle regioni meridionali), dei fondi strutturali europei, assistiti – in teoria – dal co-finanziamento nazionale, e da fondi ordinari pluriennali. Una valanga di risorse, a cui si dovrebbe aggiungere una quota non ancora precisata di investimenti privati (anche esteri), che pone un problema serio di “assorbimento”. Parola con la quale si intende la scarsa capacità delle amministrazione comunali e regionali a spendere e a realizzare tutte le procedure connesse che, per i fondi del Piano nazionale devono completarsi in un arco di pochi anni, con opere “chiavi in mano”.

Lo Svimez ha già lanciato l’allarme che nei prossimi anni il divario con il resto del paese potrebbe non chiudersi, per diversi ordini di fattori di tipo organizzativo ed economico. Su quest’ultimo piano penalizza un basso livello dei consumi, che viene addebitato ad una base di forza lavoro ristretta (vedi bassa occupazione femminile e giovanile), spesso impegnata in occupazioni precarie e con una dinamica salariale stagnante. Non si avverte perciò il bisogno, in un momento così delicato, di “manine” che inseriscono in documenti e atti normativi criteri iniqui di ripartizione delle spese, a tutto detrimento del Sud, come è spesso avvenuto in passato e come è avvenuto ancora nei giorni scorsi sull’alta velocità e, di nuovo, sugli asili nido.

Se è vero che assicurare una quota parte dei fondi al Sud non è ancora garanzia di un riequilibrio (come ha notato Viesti sul Mattino) d’altra parte la scelta fondamentale – di fare sul serio – è stata compiuta e non era scontata. Tutto l’impegno degli apparati pubblici deve perciò tendere alla realizzazione delle condizioni organizzative e ambientali perchè le risorse venga effettivamente spese.