Poveretto, si dovette dimettere. E la sua intervista (io ovviamente scrissi tutto il suo background) provocò un grande scandalo ma soltanto per i modi romaneschi e popolani dell’uomo, la sua improntitudine di politico pratico. Ci furono convegni e vignette, ma non un solo procuratore della Repubblica, non uno, che aprisse un fascicolo contro ignoti sulle allegre finanze di partiti e politici. Non era un caso: nel 1980 non era prevista Tangentopoli. E me lo spiegarono con calma sorniona gli amici comunisti di allora: «Noi ci finanziamo illegalmente da Mosca con milioni di dollari e l’accordo con gli altri partiti e anche col sistema giudiziario è che ognuno si fa i fatti suoi». Infatti il sistema fu confermato dagli stessi comunisti e spiegato da Francesco Cossiga. Insomma, non c’era motivo, nel 1980, per mettere in crisi il sistema degli approvvigionamenti tutti illegali.

Fu ciò che Bettino Craxi disse, con tutte le pezze d’appoggio, nel celebre discorso alla Camera dei Deputati del 29 aprile 1993, quando ammise i finanziamenti illeciti al suo partito sfidando tutti gli altri partiti a negare di essersi finanziati oltre i limiti del codice penale. Nessuno fiatò e Bettino Craxi fu impolpettato da una campagna senza tregua e da accuse e processi fra cui quello di cui Di Pietro fu il leggendario Pubblico Ministero e che – avendo un passato di deferente agente di polizia – interrogò Craxi in tribunale usandogli dei riguardi formali e un tono rispettoso che gli fu aspramente rimproverato da Scalfari su Repubblica: che gioco sta facendo Antonio Di Pietro?

Gli italiani furono portati a un tremendo livello di sovraeccitazione di tipo “grillino”, i politici apparivano una gang di criminali incalliti e Bettino Craxi, il cultore del mito di Garibaldi e il finanziatore dei palestinesi e altri movimenti di liberazione (per quei capricci Craxi spese tutto ciò di cui si poteva approvvigionare) diventò un gangster, quello contro cui scagliare con un gesto di disprezzo umiliante, manciate di monetine all’uscita dell’hotel Raphael dove abitava.

Aveva quel fisico particolare: un omone altissimo con occhialoni che ingrandivano lo stupore dei suoi occhi, afflitto da un diabete alimentare che lo rendeva spesso emotivo e un divoratore leggendario (con lui al ristorante dovevi difendere il tuo piatto dalla sua forchetta) e aveva l’aria di quei ragazzoni che dalla ferrovia prendevano a sassate i figli di signori col loden. Non portava un loden ma un impermeabile enorme e stropicciato specialmente quando non pioveva e fummo molto vicini quando si trattò di tentare di salvare Aldo Moro in mano alle Brigate Rosse, che la Dc e il Pci avevano di fatto condannato a morte.

Ci incontrammo agitati sotto la sede del Partito socialista a due passi da piazza del Popolo e disse, come se il latino fosse diventato la lingua condivisa, “Primum vivere”. Lui e Scalfari erano nemicissimi, ma nell’inimicizia si consideravano gli unici duellanti degni l’uno dell’altro. Scalfari era stato salvato in Parlamento dal segretario socialista Giacomo Mancini che lo aveva fatto eleggere alla Camera per metterlo in salvo dalla condanna per il processo sui fatti del 1967. Era deputato a Milano dove entrò subito in conflitto frontale con Bettino. E quando Scalfari ebbe un diverbio con un vigile milanese per una questione di parcheggio, Craxi fece arrivare la notizia al Corriere della Sera che mise in prima pagina il titolo su Scalfari che diceva “lei non sa chi sono io”. Risultato: Eugenio perse la rielezione per pochi voti, all’Espresso gli sbarrarono la strada e lui fondò Repubblica che fu la modernissima macchina da guerra con cui duellare con Craxi fino alla sua fine.

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.