Rita Bernardini è, dal 16 agosto, in sciopero della fame per chiedere alle istituzioni di intervenire per fermare l’ondata di suicidi nelle carceri italiane. Sono stati 59 dall’inizio dell’anno. Lo Stato ha preteso di limitare la libertà di queste persone, ma non è stato capace di proteggerne la vita. Si tratta, tuttavia, solo della punta di un iceberg di una più vasta e disumana sofferenza: neonati e bambini tenuti in carcere con le loro madri, persone in condizioni di salute estreme ed irreversibili ritenute contro ogni evidenza compatibili con il regime carcerario, sovraffollamento spesso da terzo mondo, ostacoli insormontabili alla conservazione dei rapporti affettivi e di quelli familiari. Le carceri italiane sono, insomma, un universo di sofferenza, che va molto al di là anche di quella funzione prevalentemente afflittiva, che molti predicano deve avere la pena, ignorando il dettato della Costituzione, che vorrebbe che la funzione principale della pena fosse, invece, la rieducazione.

Eppure, nonostante la palese inaccettabilità per un paese civile di tutto questo, Rita Bernardini è costretta ad uno sciopero della fame per cercare di richiamare l’attenzione e smuovere le coscienze. A questo quadro drammatico, si deve aggiungere il silenzio di questa modestissima campagna elettorale sul tema delle carceri. Solo Silvio Berlusconi, ed è un merito di cui gli va dato pienamente atto, nella “pillola” del 3 settembre ha preso posizione su questo argomento, auspicando, tra le altre cose, un ricorso molto più ampio alle pene alternative ed una maggiore attenzione alla dignità dei detenuti. Per il resto un silenzio, che diventa colpevole, nel momento in cui riguarda problemi assolutamente noti nella loro drammaticità. Un silenzio ancora più colpevole, se possibile, per quella sinistra, che proclama di esistere per la difesa degli ultimi, ma che proprio quando si tratta degli ultimi degli ultimi gira, come fa anche con i migranti, la testa dall’altra parte. L’importante è che non facciano rumore e non disturbino.

Il fatto è che l’ondata giustizialista, che a partire da Mani Pulite ha sommerso la coscienza degli italiani, ha fatto diventare il carcere una sorta di divinità pagana, alla quale bisogna sacrificare più vite umane possibile per poter ottenere il benessere e la catarsi della società. Ecco, allora, che in questa prospettiva il tema della dignità dei detenuti, della funzione rieducativa della pena, del senso di umanità verso chi soffre, crea solo un flebile e fastidioso rumore di fondo, rispetto alle grida della moltitudine che chiede “che sia buttata via la chiave”. L’incarcerazione è divenuta, ormai da tempo, una sorta di rito pagano, che vedeva, fino all’intervento della ministra Cartabia, il momento più alto e significativo della cerimonia nelle conferenze stampa dei procuratori della Repubblica dopo le “retate”. La politica, con la sola eccezione come si è detto di Berlusconi, o si è unita al coro o, comunque, si guarda bene dal dissociarsene. C’è chi lo fa per convenienza e chi per paura. Certo che la lotta all’ “impunitismo”, secondo le parole usate da Enrico Letta e che sembrano pronunciate apposta per guidare il populismo giudiziario, la fa da padrona. In questo contesto, per partiti che hanno perso gran parte della loro carica ideale e che sopravvivono come strutture di potere, è troppo alto il rischio che occuparsi della questione carceraria possa implicare una perdita di consenso.

Il ruolo del carcere nella società italiana non potrebbe, tuttavia, essere quello che è se non vi fosse la partecipazione della magistratura. È, questa, una prospettiva diversa, che consente di mettere in luce un altro aspetto della sacralità del carcere. Tra i diritti fondamentali dell’individuo, i primi e più significativi sono quello alla vita e quello alla libertà della persona. Il potere che può, legittimamente, negare sia il diritto alla vita, nei paesi in cui è consentito, e sia quello alla libertà personale è il potere giudiziario. Che, quindi, si viene a trovare al di sopra di quelli che sono i diritti più sacri dell’individuo. Giudicare sulla possibilità che una persona mantenga questi diritti diventa, perciò, specie in un paese democratico, caratterizzato dalla separazione dei poteri, il massimo esercizio di potere possibile. Tale potere si esercita appieno e diventa infinitamente più appariscente quando nega il diritto alla libertà o, addirittura, il diritto alla vita.

È ovvio, allora, che l’esercizio di questo potere richiede un equilibrio ed una cautela, che sono assai difficili da mantenere in tempi normali. Figurarsi in un periodo come questo, nel quale la folla, spesso guidata dai leader politici, invoca a gran voce che la divinità pagana del carcere riceva più sacrifici umani possibile. Ciò, tanto più in un paese che, per storia e per tradizione, non ha la cultura della tutela delle libertà personali. In Inghilterra, sin dal 1679, con l’habeas corpus act, è stata affermata la inviolabilità della libertà personale. In Italia, si tratta di un processo lungo e faticoso, iniziato con la Carta Costituzionale del 1948, ma che è ancora largamente incompiuto. Lo si vede nelle decisioni dei giudici.

Già nella fase delle indagini, la privazione della libertà personale non ha affatto carattere di eccezionalità. Di fronte, poi, ad un legislatore che chiede l’esistenza di indizi gravi, la banalizzazione, avallata anche dalla Cassazione, è ottenuta affermando che si deve comunque trattare di una valutazione “dinamica”. Il che significa che anche indizi labili, e che al più aprono dei dubbi, sono idonei a giustificare la privazione della libertà. Se, poi, intervenuta la privazione della libertà si cerca di riottenerla davanti al tribunale del riesame, il principio cambia completamente: le prove che devono essere date devono poter smontare compiutamente le tesi dell’accusa, non essendo sufficiente che introducano un dubbio. Troppo spesso tribunali della conferma più che del riesame, ed infatti non può che gravare anche su di essi la responsabilità del numero altissimo di ingiuste detenzioni, che si registra ogni anno.

Ecco, allora, che i temi del carcere, della sua eccezionalità, della tutela della dignità personale dei detenuti, della funzione rieducativa della pena, sono, e rischiano di essere ancora a lungo, dei buchi neri di questo paese. Che lo rendono più vicino alle democrazie incompiute ed in evoluzione che ai paesi di grande tradizione democratica. La battaglia di Rita Bernardini, a ben vedere, va ben al di là di quella dimensione carceraria alla quale apparentemente si rivolge. È una battaglia che riguarda non già un aspetto, anche se importante, del paese, ma le fondamenta stesse del sistema democratico. I partiti che, in questa campagna elettorale, fingono di ignorarlo o, addirittura, cavalcano l’onda giustizialista, si battono affinché l’Italia non diventi una democrazia compiuta.