Il tempo divora, sfianca e uccide
Caldo, niente acqua fredda, aria bollente: viaggio nella follia del carcere
«Un orologio che va male non segna mai l’ora esatta, un orologio fermo la segna due volte al giorno», chiosava Leonardo Sciascia da Racalmuto. Non sappiamo se avesse ragione. Certo è che in carcere gli orologi sono rotti, funzionano male, o non funzionano affatto. Lo abbiamo constatato d’emblée in occasione dell’ultima visita agostana nelle carceri di Siracusa, Vibo Valentia e Catanzaro insieme a Rita Bernardini, Sergio D’Elia e ai compagni di Nessuno tocchi Caino.
È stata la prova del nove, un dato materiale che diventa qualcosa che è altro, altrove, un dramma consegnato all’evidenza. In fondo non ha granché senso chiedere che ore sono in in un carcere perché, dentro le mura carcerarie, il tempo proprio non esiste. D’altronde potrebbe mai essere diversamente? Che senso avrebbe contare i secondi, i minuti, le ore in un luogo nel quale al massimo puoi prendere una boccata di caldo feroce in un arido passeggio, soffrire il senso dell’inutilità, della depersonalizzazione, della pena che è morte civile? Come ne La persistenza della memoria di Salvador Dalì, in carcere gli orologi sono molli, quasi liquefatti, un po’ come la vita dei poveri diavoli che non hanno diritto alla ricerca del tempo perduto. Lo ha deciso l’ideologia rettiliana della retribuzione, del taglione, quella concezione diabolica che ha partorito strutture nelle quali si deve patire, stentare, soffrire.
A guisa dei “fiori del male” di Baudelaire il tempo che passa, in un penitenziario, divora, sfianca, annichilisce. Un detenuto ha un sogno nel cassetto: un sorso d’acqua fredda. Proprio così: nei frigoriferi (ammesso che esistano) di alcune carceri non puoi mettere una bottiglia d’acqua. Un altro malcapitato vorrebbe un ventilatore nel giorno in cui in Sicilia si sfiorano i 48 gradi; un altro ancora sogna d’inverno una coperta dignitosa o uno spazio di socialità. Forse a questo punto è pure saggio non avere un orologio funzionante sulla parete di un carcere perché diventerebbe soltanto un peso smisurato, un ordigno pronto a esplodere, un nemico. È proprio vacuità, il gusto del nulla. Si discute finanche su quante merendine possa portare un condannato a colloquio con i propri bambini (anche questo si è avuto il coraggio di normare) mentre ammalarsi in galera è la peggiore sventura che possa capitare.
Può accadere nelle carceri italiane, come a Vibo Valentia e a Catanzaro, di imbattersi pure in disabili fisici e psichici, in vecchietti di 85 anni che sono in predicato di traslocare altrove ma che noi teniamo lì, in cattività, per mettere sul tavolo tutto il peso della violenza di stato, della terribilità. La verità è presto detta: il nostro è uno stato che, nel nome di Abele, sguazza nella illegalità, nella violazione dei diritti umani fondamentali, diviene esso stesso carnefice.
Non ha proprio senso sostituirli gli orologi rotti in carcere: promettiamo di non segnalarlo al dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Il tempo è tiranno, è nemico: meglio non averne contezza. Ci sono in quei luoghi mortiferi colpevoli che provano a tirarsi da terra sollevandosi per i capelli, a non farsi corrodere dal tarlo della rassegnazione. Faticano, studiano, inventano dolci buonissimi, hanno lo sguardo terso di chi non si bagna nella stessa acqua di un tempo. Restano però lì perché “l’orologio” è “rotto” e il tribunale di sorveglianza di Catanzaro non concepisce misure alternative e benefici penitenziari.
Tutto è fuori dal tempo in questa storia di orologi rotti. Lo è il carcere stesso: una struttura anacronistica che non dovrebbe più esistere, un ferro vecchio della storia. Si grida spesso che il carcere andrebbe migliorato, reso più umano. Non si può proprio migliorare uno spazio che nasce strutturalmente per arrecare dolore, nel quale, negli anni, migliaia di detenuti si sono tolti la vita. Lo avevano capito Gustav Radbruch ed Aldo Moro: «Non abbiamo bisogno di un diritto penale migliore ma di qualcosa di meglio del diritto penale». Noi non chiederemo la sostituzione degli orologi rotti. Non c’è nulla da sostituire: il carcere va solo superato.
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