Comincio con una dichiarazione impegnativa: Valerio Lundini ha qualcosa di geniale (forse a sua insaputa, questo non lo so). La pubblicazione di un suo libro – Era meglio il libro (Rizzoli Lizard, pp. 176, 15 euro) – mi permette di farne un veloce ritratto, e di sottolineare la assoluta unicità – e carica eversiva – del suo personaggio televisivo (del libro parleremo dopo). Sono convinto che Valerio Lundini, con la sua aria disarmata, impassibile, straniata – chissà se un modello lontano è Buster Keaton – sia la figura più interessante e innovativa della nostra televisione (lo abbiamo visto in una comparsata al Festival di Sanremo). Per una ragione precisa, che non riguarda tanto una presunta “demenzialità” del suo umorismo (aspetto secondario): all’interno della autoproclamantesi “società della comunicazione” Lundini finge di comunicare – senza comunicare nulla – , e dunque ne svela l’inganno di fondo. È come se ogni volta dicesse “Il re è nudo”.

Avete mai visto la Pezza di Lundini, andata in onda in tarda serata per i mesi autunnali (già si presentava ironicamente come “pezza”, come riempitivo, a coprire cioè il finto vuoto lasciato da una finta trasmissione saltata all’ultimo momento)? Si tratta dell’invenzione di un linguaggio altro, forse dell’unico vero esempio di satira culturale, e dunque “politica” in senso lato, ben oltre le imitazioni del pur bravo Crozza-Noschese o delle vignette sempre un po’ prevedibili degli “indignati” di professione. Il suo è un metadiscorso – raffinato ma anche comprensibile da tutti – che ha come oggetto se stesso, appunto la (falsa) promessa di comunicazione di ogni trasmissione, di ogni talk show.

Prendiamo le interviste all’ospite, sia egli il cantante d’antan Edoardo Vianello o il saggista di moda e ateo professionale Piergiorgio Odifreddi o il calciatore Bruno Giordano o una straordinaria Sandra Milo (fatte in studio alla presenza di alcuni personaggi fissi: persone comuni, che dovrebbero rappresentare – ironicamente – il “popolo”). Memorabile la scena in cui per replicare all’ateismo si proiettano immagini di prati, monti, laghi, etc. e allora tutto lo studio balza i piedi per applaudire commosso alla bellezza della Creazione! Lundini, un meticoloso conduttore, attento alle regole – il suo tormentone è «Ma si può dire questa cosa in trasmissione?» – che contiene un finto tonto che contiene un meticoloso conduttore (come tante Matrioska: nell’ultima puntata finge di levarsi la maschera facciale e sotto compare Travaglio, ma lì vuole strafare…), pone domande al tempo stesso “normali” e insensate, tutte giocate sul nonsense e su una logica paradossale, controintuitiva («Ma un allenatore non pensa mai di fare il giocatore, a fine carriera?»). La sua inviolabile, impacciata serietà conquista la fiducia di tutti, che infatti lo prendono sul serio (o no?).

Il significato è continuamente insidiato dal significante – il quale ha una logica indipendente, e si limita a seguire il gioco delle allitterazioni, delle analogie foniche – , già a partire dal nome del gruppo musicale di sfondo: “I Vazanicchi”. Non vorremmo caricare sulle spalle di Lundini un’eredità troppo gravosa ma sembra che, più o meno inconsapevolmente, abbia affrontato l’antico e complicato problema della parresia (ossia il principio filosofico dei cinici: “dire la verità”, “esprimersi con franchezza”) all’interno di una società come la nostra, satura di parole – e di “verità” -, dove ogni discorso, anche il più illuminato, diventa subito chiacchiera vuota, pretesto spettacolare (e di ciò sembrano non accorgersi i tanti intellettuali, filosofi, pensatori che affollano i talk).

Perfino le provocazioni di Pasolini oggi sarebbero percepite come una trovata autopubblicitaria, e lui – se si prestasse al gioco delle ospitate televisive, poniamo dalla Gruber – diventerebbe presto una ennesima maschera del teatrino mediatico. Lundini non tanto “dice la verità” quanto gioca a un altro gioco, fa saltare il banco, decostruisce la macchina, e così mostra la impossibilità (sottilmente totalitaria) di dire oggi la verità, almeno in quel contesto lì. La parresia oggi si traduce in una esibizione di inadeguatezza al ruolo, sabotaggio e spiazzamento.

Ora parliamo del libro, composto da storie, dialoghetti, apologhi, sketch, canzoni, ingegnosi palindromi, finta autobiografia, finte schede di film di un finto dizionario cinematografico, finte lettere di protesta a un ostello (ma non sarà invece tutto vero?). Godibilissimo, e interno a una nobile tradizione di racconto comico-surreale, da Campanile a Flaiano, e fino alle iperboli fantozziane. Però il libro non si mostra interamente all’altezza della invenzione televisiva. È fatalmente più tradizionale, deve comunque rispettare certe convenzioni narrative, certi canoni, deve tenere a bada il gioco sempre “anarchico” del significante. In “Casa di gente”, che chiude la raccolta, Lundini osserva che «bisogna imparare a dosare il proprio anticonformismo affinché non diventi idiozia». Sacrosanto! L’anticonformismo ci mette pochissimo a diventare maniera, snobismo, e una nuova, asfissiante retorica.

Per evitare tutto questo occorrono intelligenza e autoironia, attitudini che Lundini mostra di avere. In fondo anche il suo libro potrebbe essere un’altra “pezza di Lundini”: come la trasmissione stava al posto di una trasmissione non più andata in onda così il libro sta al posto di un altro libro, e così questa stessa recensione ne sostituisce all’ultimo momento un’altra…