Al Quirinale, così come a palazzo Chigi e nel resto del paese sono preoccupati di ben altro che non misurare al centimetro il grado di popolarità e di successo personale di Giuseppe Conte nella nuova veste di “pacifista, nemico delle armi e avvocato del popolo”. Anzi, di colui, come rivendica, che ha “dettato la linea al governo e ha dato voce al popolo imponendo lo slittamento del raggiungimento del target del 2% del Pil nelle spese militari”. Dal punto di vista della cronaca politica locale, la narrazione by Casalino ha cercato ieri per tutto il giorno e forse ottenuto di avere titoli e aperture di siti, agenzie e tg. I posteri diranno se e quanto consenso produrrà tutto questo agitarsi.

Dal punto di vista della Storia, le notizie arrivano invece dal lungo confronto telefonico (40 minuti) che mercoledì sera Mario Draghi ha avuto con Vladimir Putin. E dagli spiragli – “ma sono soprattutto sensazioni e qui invece tocca stare ai fatti” ha detto Draghi – che questa telefonata ha aperto nel delicatissimo dossier della guerra che la Russia ha dichiarato unilateralmente all’Ucraina. La stampa estera, cioè i corrispondenti delle testate e tv straniere, avevano da tempo organizzato l’incontro con Draghi per ieri mattina. Il caso ha voluto che l’appuntamento avvenisse poche ore dopo la telefonata tra il premier italiano e il presidente Putin. È stato il primo contatto diretto da quando è scoppiata la guerra. Macron, in quanto presidente di turno, ne ha già avuti 19. Scholtz una decina. Palazzo Chigi ha atteso che maturassero tutte le condizioni utili per una comunicazione diretta tra i due senza possibili fraintendimenti. Non è un mistero che la comunità europea e Washington abbiano tenuto il ruolo dell’Italia “congelato” in questo mese per via della presenza in maggioranza di due partiti come Lega e 5 Stelle che hanno avuto negli anni simpatie e collaborazioni dirette con il partito di Putin.

Draghi ha chiamato per parlare di pace. Putin per parlare di gas. Ma la diplomazia passa anche, soprattutto, dai tubi di un gasdotto. E quindi l’approccio è stato utile. Da entrambi i punti di vista. Draghi ha fatto quasi la cronaca della telefonata: «Io – ha spiegato il premier rispondendo a vari domande su questo punto – ho detto a Putin “la chiamo perché voglio parlare di pace”. Lui ha sostanzialmente acconsentito. “Certo, parliamo di pace” ha detto. Al che io ho aggiunto che la cosa più importante è dimostrare che il desiderio di pace esiste e si sostanzia in un cessate il fuoco, anche breve. A questa mia osservazione Putin ha risposto che le condizioni non sono ancora mature. Però, stando ai fatti, dobbiamo prendere atto del fatto che sono stati aperti tre corridoi umanitari, uno dei quali a Mariupol». Parlando delle “condizioni per un accordo”, Draghi ha detto che «per risolvere certi nodi cruciali sarebbe necessario un incontro con Zelensky». Ma la risposta è stata che «i tempi per questo non sono ancora maturi». Occorre lasciar «lavorare ancora un po’ le delegazioni al tavolo delle trattative», quello di Istanbul, insomma. A che punto siamo quindi? «C’è il campo delle sensazioni e quello dei fatti» ha spiegato il premier. I “fatti” sono che il 29 marzo c’è stata «un’importante riduzione dell’attività bellica nei dintorni di Kiev» e la circoscrizione degli obiettivi «alla regione del Donbass».

È un fatto anche che “l’intelligence occidentale conferma in parte questi fatti”. Come lo è che Putin abbia parlato, nella telefonata, di «piccoli passi avanti nei negoziati» e di posizioni delle due parti che «si sono un po’ avvicinate». Poi è molto difficile, anzi impossibile capire e avere certezze «in 40 minuti di telefonata con una persona che non sento da prima della guerra». Sì, Draghi ha notato “un cambiamento” nella persona Putin, «ma non sono in grado di dire se sia un fatto o una sensazione. Tutti noi vorremmo vedere una luce in fondo a questo tunnel ma purtroppo occorre ancora stare con i piedi molto in terra». E tenere gli occhi sui piedi. Troppo presto per cercare la luce. E «per superare lo scetticismo». Infatti, pochi minuti dopo Draghi, a Bruxelles inizia la conferenza stampa del segretario generale della Nato Jens Stoltenberg che scarica una doccia fredda su eventuali ottimismi. «La Russia mente continuamente, non si ritira si sta invece riposizionando». Probabilmente sta anche riorganizzando gli uomini e le truppe dopo le ingenti perdite nelle linee russe.

Se Draghi ha voluto parlare di pace, Putin invece ha voluto parlare di gas. Dei contratti, del vincolo di pagamento in euro e dollari, dell’erogazione di gas. Come aveva già fatto in analoghe telefonate con Macron e Scholtz. Anche qui il quadro è complicato assai. Al netto di evoluzioni sempre possibili, ieri pomeriggio – 24 ore dopo la telefonata con Draghi e dopo la conferenza stampa – Putin ha dichiarato: o pagate il gas in rubli o chiudo i rubinetti, ottenendo una risposta a muso duro di Scholz e Macron. Si sta cercando di capire se nel decreto che ha firmato è prevista la possibilità che alcuni paesi europei possano pagare non in rubli. I casi “speciali” in cui sarà autorizzato il pagamento in euro o dollari sarà valutato da una Commissione governativa entro dieci giorni. Tutto questo dovrebbe significare che i paesi europei, che sono anche i principali acquirenti del gas russo, sono esentati dal pagamento in valuta. «Le parole di Putin – ha detto Draghi in mattinata – sono state: i contratti esistenti rimangono in vigore, le aziende europee, e ha rimarcato che è una concessione solo per loro, continueranno a pagare in euro o in dollari. La spiegazione su come si faccia a conciliare le due posizioni, dollari e pagare in rubli, è stata lunga e molto tecnica. La conversione dovrebbe essere poi un fatto interno alla Federazione Russa. Ora ci sono analisi in corso per capire che significa e se è compatibile col sistema delle sanzioni». Questa del gas è la partita cruciale: la speculazione morde (ieri è aumentato del 5%), l’inflazione pure (+6,7, mai così in Italia dal 1991). La carenza di materie prime aumenta l’inflazione.

Il terzo argomento caldo della conferenza stampa è stato quello delle spese militari. Draghi, che aveva appena incassato una larga maggioranza al Senato sul decreto Ucraina (5 Stelle compresi) ha dichiarato davanti alla stampa estera che «nella sua maggioranza non ci sono problemi né disaccordo sulle spese militari». La questione è molto semplice e liquidata in poche parole: gli impegni di internazionali “vanno sempre onorati”, la data del 2024 entro la quale va rispettato l’impegno di destinare alla difesa il 2% del Pil “non è vincolante”. Come sapete, ha detto Draghi, «Conte ha chiesto di incontrarmi l’altro giorno per proporre, tra le altre cose, di allungare la data al 2030. Ho detto di no. Il ministro della Difesa Guerini ha proposto di mantenere il trend di aumento del Pil tenuto in questi anni di modo nel 2028 potremo onorare la nostra promessa». Il vero tema, invece, è la «difesa comune europea per una migliore politica europea». Dovremmo cominciare, ha spiegato, da un «coordinamento europeo delle spese e delle funzioni, cosa che già ci farebbe risparmiare e rendere più efficace la spesa attuale». La somma dei bilanci di difesa dei 27 ammonta a circa 237 miliardi, poco meno della Cina e tre volte la Russia (62 miliardi di budget). Numeri che costringono ad un ripensamento della spesa e delle funzioni. Che è pari pari quanto Draghi ha detto la scorsa settimana nei tre vertici internazionali a Bruxelles.

Dunque, come aveva suggerito il ministro Guerini martedì, raggiungeremo il 2% entro il 2028. Che poi era la mediazione e la gradualità che il Pd aveva già offerto lunedì sera prima di montasse tutta questa baraonda ad uso e consumo della campagna elettorale di Conte. Ma quella era i 5 Stelle dissero no. Si vede che era troppo presto per fare un accordo che avrebbe spente polemiche e titoli sui giornali. Così la kermesse è andata avanti, sempre più sul nulla, fino a ieri. Appena finita la conferenza stampa di Draghi, Conte ha fatto un post per rivendicare la sua vittoria. «Li abbiamo fermati, hanno fatto come dicevamo noi». Che non è vero non importa. Dello stesso tono la diretta Instagram delle 15 e 30. Non contento, Rocco Casalino ha suggerito l’opportunità di una salita al Colle per rimarcare anche davanti al Capo dello Stato la sua “vittoria in nome del popolo afflitto da tanti problemi”.

Del resto, Draghi era salito al Colle dopo averlo incontrato martedì, e lo stesso deve fare l’ex premier. Al Quirinale non hanno potuto fare altro che allargare le braccia e ricevere il capo politico del Movimento. Sempre Casalino aveva organizzato un punto stampa in piazza del Quirinale. Come ai vecchi tempi e con qualche amarcord. Gli hanno suggerito che sarebbe stato meglio evitare. Il punto stampa è stato fatto in via Campo Marzio, dove c’è la sede del partito. «Ho informato il Capo dello Stato delle difficoltà e la sofferenza che sta vivendo il paese…». Il Quirinale ha derubricato l’incontro a «ordinaria visita con il leader di una forza di politica di maggioranza». Alla fine, anche nel 2022 aumenteremo la spesa militare dello 0,1 per cento del Pil. Circa un miliardo di euro.

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Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.