È da tempo che non si parla e non si scrive più delle sorti magnifiche e progressive della globalizzazione, se mai fosse stata fondata questa prospettiva, e ciò a motivo degli eventi che si succedono e che sono culminati con la grave violazione del diritto internazionale e, prima ancora, dei diritti umani rappresentata dalla guerra scatenata dal dittatore russo contro l’Ucraina. Poco più di dieci anni fa, si discuteva di nuove regole delle attività bancarie e finanziarie, di beni pubblici globali, mentre molti anni ancor prima si era cancellato parte del debito dei Paesi poveri. Non è di certo la prima violazione di norme e di accordi da parte di Putin, ma è un colpo ulteriore da lui inferto al diritto internazionale, pubblico e privato, l’ordinanza con la quale, disponendo per l’attuazione da parte degli organi competenti, stabilisce che il pagamento delle forniture di gas e di petrolio a favore dei Paesi cosiddetti ostili debba avvenire in rubli.

I contratti prevedono, invece, che il pagamento venga effettuato in dollari o in euro. L’intento dello “zar” è di prendere “due piccioni con una fava”: poiché per disporre di rubli ci si dovrebbe rivolgere alla Banca centrale russa chiedendo il cambio delle due valute anzidette, da un lato, si sarebbe costretti a operare con la stessa Banca, annullando la sanzione sul blocco dell’operatività, dall’altro, l’aumento della domanda della moneta russa le darebbe tono rispetto alla caduta che l’ha caratterizzata in questi giorni. L’ordinanza putiniana è stata giustamente considerata una violazione dei contratti e, in quanto tale, illegittima. Qualcuno l’ha ritenuta un bluff, qualche altro ha sostenuto che bisogna fare attenzione ad affossare il rublo perché ciò potrebbe spingere anche il ceto medio sulle posizioni di Putin. Che sia la minaccia di un inadempimento è chiaro. Che la “lex monetae”, un principio generale in base al quale è prerogativa di uno Stato sovrano scegliere la propria moneta, vada poi bilanciata con l’osservanza dei Trattati e dei contratti – “pacta sunt servanda”, altro principio cardine del diritto – è del pari non contestabile. Anche in Italia, durante il primo governo Conte, alcuni settori ipotizzavano la possibilità di rimborsare in lire il debito pubblico, qualora si fosse dovuto uscire dall’euro e lo sostenevano proprio in nome del malinteso principio della “lex monetae”, trascurando le altre fondamentali norme e i principi regolatori.

Poi questa ipotesi strampalata venne abbandonata anche nella dialettica sviluppatasi sull’adesione all’euro. Tutto ciò, naturalmente, sul piano dello stretto diritto, prescindendo, qui, dall’effetto sull’altro piano, quello della fiducia, dell’affidabilità e della credibilità che registrerebbe un comportamento quale quello programmato da Putin. Dunque, il diritto e le prassi sono dalla parte dei Paesi che ricevono le forniture. Ma come concretamente, di fronte all’eventuale persistere della pretesa di Putin, si fanno valere norme e consolidate pratiche, in una situazione, quella russa, di sostanziale anomia in questo versante? “Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?” Un braccio di ferro potrebbe sfociare nel blocco delle forniture in una situazione in cui i Paesi cosiddetti ostili non si sono (ancora) liberati dalla dipendenza dall’energia russa. Ma converrebbe, ciò alla stessa Russia che dall’export in questo campo trae consistenti risorse? In ogni caso, nella persistenza di tali comportamenti e minacce, il tema di un più alto livello delle sanzioni, fino all’embargo totale, diventa ineludibile, accompagnando l’iniziativa con intense azioni mirate al “cessate il fuoco” o, comunque, a una tregua anche limitata, correlata a trattative per la fine del conflitto. Ovviamente, ciò è facile a dirsi, mentre l’invasore non solo non mostra un’apertura nei confronti di quest’ultima ipotesi, ma accentua lo sforzo bellico e mentre qualcuno intravede la minaccia, da parte della Russia, dell’impiego di armi chimiche.

In questa situazione, a partire dalla Nato, è stato deciso di bloccare finanche l’operatività in oro, con l’impiego delle riserve auree, della Banca centrale russa: un’iniziativa, questa, che è in aperto contrasto con l’operatività nelle valute estere, per il cambio con il rublo, che Putin vorrebbe. In tale difficile situazione, diventa ancor più delicato e complesso il ruolo della governatrice della Banca centrale, Elvira Nabiullina la quale avrebbe voluto non essere confermata in occasione del recente termine dal mandato, ma, ciononostante, Putin ha voluto rinnovarle l’incarico. Si tratta di una personalità particolarmente competente e capace che sembra abbia manifestato pareri diversi sulla guerra e sulle relative iniziative. L’autonomia e indipendenza della Banca centrale si fonda, in definitiva, sul ruolo di questa governatrice, dando per scontate le invasioni di campo putiniani come nel caso del pagamento in rubli.

Fra la fine del mese e il 4 aprile, lo Stato russo è chiamato a rimborsare cedole nonché un titolo, nell’ordine, con esborsi di 359 milioni di dollari e di 2 miliardi. Incombe sempre il rischio di default, che si concreterebbe anche se il governo volesse pagare in rubli e non in dollari. Ci si chiede cosa penserà al riguardo Nabiullina e se una sua ferma posizione, come vuole la sua indubbia preparazione, non possa contribuire a introdurre auspicabili, forti elementi di dialettica nel governo. Si chiede troppo in una situazione ferreamente tenuta in pugno dal dittatore? A ben vedere, però, l’arroccarsi sul rublo, da parte di Putin, è una dimostrazione di debolezza e la conferma dell’isolamento.