Pur ammettendo che siano convocati, ormai è chiaro che gli Stati dell’economia non saranno più generali ma, bene che vada, solo colonnelli. Ma prima di far sedere, distanziati e mascherati, i rappresentanti delle organizzazioni economiche per discutere con loro degli obiettivi e delle modalità del “rilancio”, occorrerà mettersi d’accordo su che cosa il governo potrà promettere e impegnarsi a realizzare. Intanto pare certo che il compitino redatto dalla variopinta (quanto a competenze) task force coordinata da Vittorio Colao non sia stato accolto favorevolmente; non solo per i contenuti, invero modesti, ma soprattutto per una grave questione di metodo. Il governo (compreso il premier?) ne è venuto a conoscenza attraverso i media, prima di vedersi consegnare il documento in busta riservata. Si vede proprio che la prassi ormai consueta per gli avvisi di garanzia (l’interessato legge in anticipo la notizia sulle agenzie) è divenuta la regola “materiale” per tutti gli atti pubblici. Certo che la politica in Italia ha voluto sperimentare di tutto in questa stramba XVIII legislatura.

Il presidente del Consiglio non è stato incaricato dal presidente della Repubblica, ma imposto dai suoi vice, leader dei partiti – già feroci avversari durante la campagna elettorale – che si erano alleati, per contratto, facendo la sommatoria dei rispettivi programmi. La vicenda di Conte sembra uscita da un film americano dove si racconta di un sosia che prende il posto del presidente Usa colpito da un ictus; oppure da quell’altro, di produzione italiana, in cui i grandi elettori – allo scopo di esprimere una forza di protesta in maniera burlesca – scrivono sulla scheda il nome di Giuseppe Garibaldi e finiscono per eleggere un over 50enne (quidam de populo) che si chiama come l’Eroe dei due mondi. E guarda caso, come i personaggi dei film, Giuseppe Conte ha saputo cavarsela dignitosamente, anche in circostanze difficilissime, riuscendo – primo nella storia della Repubblica – a succedere a se stesso a capo di una diversa maggioranza. Tuttavia, se al premier è riuscito il tentativo di farsi coprire dall’establishment dei virologi nella gestione della fase più acuta della pandemia, alla fine ha dovuto rendersi conto che “più del dolor potè il digiuno” e che non era possibile massacrare ulteriormente l’economia e la società civile. Così si è assunto la responsabilità di riaprire.

Su questo passaggio sarebbe bene chiarirsi le idee: si sta sgonfiando l’epidemia oppure è cambiata la linea per affrontarla? In parte sono veri ambedue i casi, che peraltro sono in relazione tra di loro. Il virus è ancora tra di noi, ma siamo in grado di difenderci meglio, perché oggi il Servizio sanitario si è rafforzato e ha accumulato – sopportando costi umani e sociali terribili – esperienza. Nella fase acuta della pandemia tutto si è scaricato sulla struttura ospedaliera a cui i contagiati ricorrevano in condizioni gravissime, tanto da dover ricorrere alla terapia intensiva. È significativo che adesso pure essendoci ancora dei contagiati – in certe aree del Paese in numero da non sottovalutare – le posizioni di terapia intensiva siano disponibili. Magari un giorno ci accorgeremo che abbiamo riconvertito le strutture ospedaliere per contrastare le epidemie, a scapito di altri reparti per terapie non meno gravi, più frequenti e altrettanto letali.

Non c’è dubbio, però, che è cambiata anche la linea. Per 100 giorni le principali tv – quasi a canale unico – non parlavano che del Coronavirus (telegiornali, rubriche, talk show, conferenze stampa in diretta della Protezione civile, incursioni del premier, presenza perenne di scienziati, ecc.). Tutto questo impegno (incentrato su di una sorta di pensiero unico che non consentiva opinioni differenti, rispetto agli obblighi di chiusura e all’isolamento) ha diffuso una psicosi nelle comunità grave almeno quanto il contagio, con effetti devastanti per i rapporti sociali, perché non si esce migliori da una esperienza durante la quale un’altra persona, fosse pure un amico o un parente, veniva indicata come un pericolo per la nostra salute se non addirittura per la nostra vita. Ora però abbiamo la prova che la realtà è quella che vediamo in tv. Sparito dai teleschermi il Covid-19 non è uscito dalla nostra vita, ma ci stiamo rassegnando a una travagliata convivenza.

Intanto se davvero in autunno sarà diffusa la vaccinazione contro l’influenza di stagione (finora gli over 65 che vi si sottoponevano erano poco più della metà) può essere che ne derivino dei benefici anche in vista della temuta seconda ondata. Ma tornando agli Stati colonnelli, è opportuno non sprecare quest’occasione. Quello che chiedono le forze economiche lo hanno già spiegato. A questo proposito, ricordo che un grande dirigente sindacale come Luciano Lama, nelle riunioni, quando qualche compagno interveniva dicendo «i lavoratori dicono…», lo interrompeva con queste secche parole: «Lo so che cosa i lavoratori dicono. Mi interessa conoscere che cosa dici tu a loro». È questa una lezione formativa anche per un “premier per caso”. Agli Stati generali (finalmente promossi di grado) un governo va per dire, non per ascoltare e prendere nota (come faceva agli esordi Conte). E non c’è nessun Colao (costretto a lavorare, insieme ad altre persone, senza aver ricevuto uno straccio di input dalla politica) che possa prendere il posto di un premier.

Truman era solito affermare che lo scrittoio del presidente è il punto in cui finisce lo scaricabarile. Ma, a monte, c’è una scelta da compiere che è ancora controversa da noi e che non è del tutto definita nell’Unione. Le risorse (se saranno) rese disponibili non verranno spartite perché ogni Paese le impieghi come gli pare. Occorrerà individuare degli obiettivi e dei progetti comuni su cui lavorare ognuno per la sua parte, le sue attitudini e i suoi punti di forza. Ecco perché bisogna partire di qui. Poi l’intendenza seguirà.