La nemesi di Giuseppe Conte si chiama Marco Travaglio e vuole l’immancabile ironia della sorte che a decretare la rovina dell’avvocato siano puntualmente i consigli, elargiti in perfetta buona fede, dal suo principale sostenitore. Il direttore del Fatto è stato lo stratega che ha guidato la resistenza dell’allora presidente del Consiglio nei mesi dell’assedio di Renzi a palazzo Chigi, tra la fine del 2020 e l’inizio del 2021. Per Travaglio e per l’intero pacchetto di mischia del Fatto cosa si dovesse fare era lampante: andare allo scontro frontale in aula. Da una parte quello che allora D’Alema definiva “l’uomo più popolare d’Italia”, dall’altra quello che sempre D’Alema, esperto in materia, bollava come “il più impopolare”.

Da una parte la stabilità, cioè la conservazione del prezioso posto, dall’altra il salto nel buio, la crisi, lo spettro delle elezioni anticipate. Come potevano esserci dubbi sull’esito finale? I “responsabili” sarebbero spuntati come funghi dopo il diluvio. La battaglia campale si sarebbe conclusa con la rotta di Renzi. Padellaro, il più agguerrito in campo dopo l’inarrivabile direttore, riassunse la linea dura in un editoriale che rubava addirittura il titolo allo storico discorso di Martin Luther King “I have a dream”. Il sogno di Marco & Antonio era un discorso in cui Conte, dopo aver mandato pubblicamente a stendere l’odiato Matteo come aveva già fatto l’anno precedente con l’omonimo leghista, annunciava dimissioni e voto anticipato, non essendoci alternativa a se stesso, l’ Insostituibile. A quel punto avrebbero imparato a loro spese, i traditori, costretti a “trovarsi un lavoro”. Il sottotesto era chiaro e del resto esplicitato in numerosi altri articoli ed editoriali: se “Giuseppi” va allo scontro il panico sommergerà i parlamentari costringendoli alla resa.

Era di avviso diverso il capo dello Stato. Suggeriva al premier assediato di anticipare le mosse dell’assediante evitando lo scontro frontale e dimettendosi, sì, ma non per sfida, piuttosto per aprire la strada a una mediazione che lo stesso uomo del Colle avrebbe spalleggiato assicurando il reincarico a Giuseppi. Conte non si fidò, preferì dare ascolto al tutore giornalista, diede battaglia in campo parlamentare aperto. Poche settimane dopo era fuori da palazzo Chigi e al suo posto subentrava, in sostituzione dell’Insostituibile, Mario Draghi. Travaglio e compari ci hanno rifatto negli ultimi mesi. Nessuno ha spinto più di loro verso la guerra un per la verità recalcitrante Conte. Argomentazione semplice, secca, soprattutto confermata da sondaggi e sonanti voti reali: se il Movimento continua a subìre, a ingoiarsi una dopo l’altra leggi di Draghi che mirano solo a demolirlo finirà presto per scomparire. Ancora una volta il capo per finta dell’M5s ha dato retta al tagliente editorialista, anche se con un retropensiero più consono alla sua natura ben poco incendiaria. Strillare e impuntarsi sì ma solo sino al limite, senza mai oltrepassare il punto di rottura.

Il problema è che quella nitroglicerina distillata dalle colonne del Fatto nutriva anche le sempre più smarrite truppe parlamentari. Le quali, soprattutto al Senato, non avevano alcuna intenzione di fermarsi sul confine dello strappo, umori facilitati del resto dalla effettiva e marcata ostilità del governo nei confronti del Movimento. Non tanto di Draghi, forse, quanto di alcuni suoi consiglieri che, Giavazzi in testa, sembravano averla giurata al Movimento. L’esito è noto, immortalato dalle telecamere che nel giovedì di passione, due giorni fa, diffondevano le immagini di senatori che sembravano usciti da un incubo e di un leader che sembrava invece esserci entrato, con dieci anni di più sul groppone e palesemente perso. Nella galleria di questa surreale legislatura, il quadro dei rapporti tra Conte e Travaglio merita un posto d’onore. Travaglio, che ha sempre cercato di pilotare il Movimento senza sporcarsi, sembra averlo individuato a un certo punto come il veicolo adatto alla bisogna.

Ne è diventato, ancora ai tempi del governo giallorosso, il primo e più entusiasta sponsor. Così facendo, peraltro, ha reso al premier arrivato a guidare due governi in nome di un Movimento al quale non aveva mai aderito davvero un servizio inestimabile: ne è diventato il garante agli occhi di una base che lo sentiva più compagno di strada che elemento interno. La benedizione del Fatto, che per buona parte della base pentastellata è Vangelo, ha contribuito in misura probabilmente essenziale a rendere l’estraneo tanto ben accolto da un Movimento tra i più settari da poterne diventare, dopo lo sfratto da palazzo Chigi, addirittura il capo. Appoggio tanto più prezioso in occasione degli scontri con il fondatore e diarca Beppe, nei quali l’appoggio del giornale è stato per il traballante quasi-leader una mano santa. Ma probabilmente non c’è solo questo.

Conte si è trovato sbalzato da un giorno all’altro al centro di un mondo di cui non conosceva niente e nel quale non ha ancora imparato a muoversi: non solo quello della politica ma di una politica come quella italiana: bizantina, ambigua, abituata a codici con i quali l’avvocato foggiano non aveva e non ha alcuna dimestichezza. L’ex premier non poteva e non può contare neppure su un gruppo di collaboratori o dirigenti meno smarriti di lui: dalla nascita il Movimento lavora solo, con risultati brillanti ma inevitabilmente superficiali, sull’immagine. Quanto a perizia politica forse il solo a dimostrare un grezzo ma effettivo talento naturale è Di Maio, del quale però Conte non si è mai fidato e come i fatti hanno poi dimostrato non a torto. Affidarsi a chi con la politica italiana ha a che fare da sempre, con i professionisti del Fatto, era quasi un destino, per Conte.

Se Travaglio ha bisogno di Conte per telecomandare il Movimento, l’ “avvocato del popolo” è altrettanto dipendente per aver le spalle coperte ma anche molto per disporre di una guida nel labirinto della politica, nel quale puntualmente si smarrisce. Solo che se Conte è un dilettante della politica, Travaglio, quando si tratta di farla e non solo di commentarla, è altrettanto sprovveduto. I risultati della sinergia parlano da soli.