In quel gigantesco rollerball televisivo che da molti anni ormai è diventato il gioco del calcio, una colonizzazione dell’inconscio collettivo, dare un’occhiata ogni tanto alla Coppa d’Africa, che si sta disputando questo mese – lo si può fare integralmente su Discovery+, oppure limitandosi a consultare gli highlights in Rete – rappresenta una vera boccata d’ossigeno. Ecco la meraviglia del football d’epoca: le ambulanze parcheggiate a bordo campo, sportelloni aperti accanto alle bandierine dove si batte il corner, inni sbagliati, arbitri improbabili e surreali, estremi salvataggi sulla linea, portieri che escono dall’area cercando farfalle, passaggi stralunati e poetici, punizioni d’altri tempi a foglia morta, alla Mariolino Corso. Perché non ammetterlo? Una volta anche noi eravamo così.

Io tifo Gambia, il più piccolo stato del continente nero, una spada dentro il fodero del Senegal, per ragioni speciali. Qualche anno fa ero a Banjul, la capitale, vecchia roccaforte britannica sullo sperone di fronte all’oceano Atlantico, insieme a Tijan, mio ex allievo, emigrato in Italia: stavamo andando a Sare Gubu, il villaggio dove viveva sua madre, miracolosamente ritrovata dopo un lungo periodo di lontananza: lui voleva farla conoscere al suo professore di lettere. In attesa della macchina che ci avrebbe condotti nel paese d’origine, alloggiavamo al Paradise Hotel e, insieme a Marco, avvocato amico nostro, ce ne andavamo in giro per la città, a Serekunda, fra il mercato del pesce, la moschea e il dirupato centro urbano. Dovunque rivolgessimo lo sguardo, spuntavano bambini che giocavano a pallone: fra loro di sicuro ci sarà stato Ebrima Darboe, nato e cresciuto nel quartiere di Bakoteh. Mi sono fatto un po’ di conti: allora il futuro campioncino doveva avere undici anni e, a quanto si dice, già spopolava sulle strade e nei campetti limitrofi.

Di lì a poco avrebbe intrapreso, come tanti suoi compagni, compreso lo studente al quale avevo insegnato a leggere e scrivere, il viaggio della speranza attraversando con mezzi di fortuna il deserto del Sahara fino in Libia e poi via sul barcone per arrivare in Sicilia. Il nostro Bel Paese sarebbe stata la sua America favorendo l’incontro con persone capaci di valorizzarne il talento: prima alla scuola di calcio dello Young Rieti, poi all’A.S. Roma. Adesso Darboe è tornato a casa per giocare nella sua nazionale, capitanata dal belga Tom Saintfiet, allenatore giramondo, ma in questo momento risulta positivo al Covid e, isolato e asintomatico, sta facendo la quarantena. Lo scorso anno esordì nel campionato italiano grazie a Fonseca che lo collocò in cabina di regia, in mezzo a giocatori ben più esperti, sfruttando le sue verticalizzazioni e l’eccezionale sangue freddo. Con Mourinho è stato più difficile emergere, anche se la società gli ha confermato la fiducia rinnovando il contratto, in quanto lo Special One dai tre di centrocampo pretende una forza atletica che Darboe ancora non possiede.

Tutto questo è ormai cronaca sportiva. Ma io non dimentico quelle masnade di ragazzini che urlanti si sfidavano sotto il sole rovente nei cortili scalcinati di Banjul, sulla riva del mare appiccicoso come una bava di lumaca, con le magliette di Lionel Messi e Samuel Eto’o che il sudore incollava alle loro schiene quasi fossero francobolli di felicità. E, qualche giorno dopo, soprattutto, quando arrivammo al villaggio, oltre il fiume: avevamo portato dei palloni acquistati da Decathlon. Li distribuimmo ai bambini i quali subito cominciarono a giocare impazziti di gioia: cinquanta contro cinquanta, senza regole, né tempi, dalla mattina alla sera, sui campi arsi disseminati di escrementi d’animali. Li guardavo affascinato dall’alto del minareto: parevano le squadre del mondo nuovo. Alcuni sarebbero diventati famosi, molti altri erano destinati a restare poveri e belli, scalzi e forsennati, una riserva d’umanità spumeggiante alla quale anche noi dovremo attingere. È questo il motivo per cui mi piace la Coppa d’Africa.