José Mário dos Santos Mourinho Félix, nato a Setùbal cinquantanove anni fa, uno degli allenatori di calcio più famosi del mondo, resta sempre un vincente, anche se perde, il che con l’A.S. Roma gli sta accadendo più spesso del solito, forse in quanto per lui i trofei, anche soltanto annunciati, secernono una sostanza vitale, ricavabile perfino dalla sconfitta: dopo le ultime clamorose e sonore batoste ricevute con il Milan e la Juve, abbiamo risentito il fragoroso colpo di gong di Bodo, la famigerata trasferta di Conference League, quando i capitolini incassarono sei leggendarie sberle dai semisconosciuti calciatori norvegesi.

Eppure anche domenica, a fine partita, il mister portoghese è uscito dagli spogliatoi con il piglio inconfondibile del conquistador. Questo è il suo credo, la poetica motivazionale che, sin dai tempi del Porto, ne guida e orienta le scelte.
Nell’esistenza bisogna andare avanti a testa alta fin dentro il baratro. Altrimenti non si spiegherebbe la ragione per cui quando deve comporre il puzzle, il tecnico lusitano, al di là degli schemi di gioco, privilegia le propulsioni atletiche e mentali. Molti romanisti stanno lì a scervellarsi su questioni per lui risibili: prendiamo Gonzalo Villar, centrocampista della Lupa e della nazionale giovanile spagnola, dal talento puro e cristallino, un tocco e via, diremmo noi, consapevole, a poco più di vent’anni, che il pallone a metà campo scotta come un carbone ardente. Indimenticabile ragazzo lanciato all’Olimpico lo scorso anno da Fonseca! Lo vedemmo districarsi come meglio non si poteva, impegnato a distribuire la sfera a destra e manca, perfino dettando ai compagni ammutoliti il passaggio strategico negli spazi vuoti: a quella verde età, segni di classe indubitabile e sopraffina.

Il campioncino di Murcia farà strada, proclamarono in tanti. Lo abbiamo rivisto anche di recente quando il nuovo allenatore è stato giocoforza costretto a metterlo dentro, considerato che non aveva altri sostituti. Stessa eleganza, medesime movenze, leggere e produttive. Bene: nelle interviste post-gara Mourinho non ha esitato, di fatto, a bocciarlo, sottolineando la sua innegabile bravura con il pallone, ma senza la diga difensiva che egli a tutti i costi pretende dai propri adepti nelle fasi di inerzia della partita, nella zona sporca e oscura dei tempi morti, fra un’interruzione e l’altra, dove, tanto per fare un nome, Bryan Cristante, uno dei pupilli, invece eccelle. Tranquillo, Villar, il futuro resta tuo. Nel mercato di gennaio, come sanno i bene informati, pare ti abbia cercato anche Simone Inzaghi, a capo dell’Inter capolista, ma con Mourinho, mettiti l’anima in pace, non farai la storia, dal momento che non corrispondi alla sua idea di calcio.

Per lui un pallone perso, come quelli sanguinosi che puntualmente, magari nel momento cruciale della costruzione dell’azione, continuano a sfuggire ai suoi giocatori (vedi Amadou Diawara, non a caso lasciato partire per la Coppa d’Africa senza versare troppe lacrime), resta inammissibile e conta, in negativo, assai più dell’assist andato a buon fine. Mourinho sogna una squadra composta da paladini disposti a combattere notte e giorno lungo tutto l’arco della partita, ecco perché domenica, contro ogni previsione, nella formazione iniziale aveva chiamato Felix Afena, il guizzante ghanese, al posto di Eldor Shomurodov, pagato a peso d’oro quest’estate. Con il giovane africano ha stretto un patto di sangue.

Il suo undici ideale non dovrebbe essere composto da semplici professionisti, baciati dalla sorte, capaci di sciogliersi come neve al sole alla prima difficoltà, bensì da uomini veri, consapevoli di essere presenze fantasmatiche, fortemente simboliche, attraverso le quali transita una parte dell’immaginario contemporaneo, non solo italiano: sapranno Dan e Ryan Friedkin, padre e figlio, presidenti americani della sempiterna Roma, garantire al condottiero di Setùbal tale auspicata compagine nel breve giro dei tre anni previsti dal ricco contratto firmato nel maggio scorso? È questa oggi la prima domanda del tifoso.