La legge
Cosa è il reato di traffico di influenze illecite, uno dei danni della legge Severino

La cosa che mi rende più fiero della attività di deputato nella XVI Legislatura è il voto contrario espresso, in dissenso dal gruppo, sulla legge Severino (legge n.190/2012): un atto di sottomissione che il governo Monti volle concedere alla mistica allora (e sempre) imperante del giustizialismo. Persino l’Ufficio del Massimario della Suprema Corte di Cassazione (una sorta di Centro Studi del Palazzaccio), trattando dei nuovi reati quali la corruzione tra privati e il traffico di influenze (le principali disposizioni-scandalo di quella legge), manifestò serie preoccupazioni sulla possibilità che quelle norme finissero per sanzionare «condotte in altri Paesi del tutto lecite». Fino ad affermare che il modo in cui era prevista la fattispecie di reato (corruzione tra privati) «appare difficilmente coincidere con gli obiettivi delle Convenzioni internazionali».
Per esperienza sappiamo adesso che il “traffico di influenze” è diventato uno dei passepartout usati dalle procure per mettere sotto scacco la politica, dal momento che, da quando l’homo sapiens è uscito dalle caverne, i “politici” non lesinano favori ai loro elettori per conservarne il consenso. Peraltro, leggendo il saggio Il Sistema dove Alessandro Sallusti intervista Luca Palamara, verrebbe da mandare i carabinieri a Palazzo dei Marescialli proprio per reprimere l’abuso del nuovo reato. Ma quella legge (poi novellata dalla legge n.179/2017) ha introdotto un’altra fattispecie che si scrive in inglese: whistleblowing ovvero la tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti. Ecco di seguito la norma: «Il pubblico dipendente che, nell’interesse dell’integrità della pubblica amministrazione, segnala al responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza… ovvero all’Autorità nazionale anticorruzione (Anac), o denuncia all’autorità giudiziaria ordinaria o a quella contabile, condotte illecite di cui è venuto a conoscenza in ragione del proprio rapporto di lavoro non può essere sanzionato, demansionato, licenziato, trasferito, o sottoposto ad altra misura organizzativa avente effetti negativi, diretti o indiretti, sulle condizioni di lavoro determinata dalla segnalazione.
L’adozione di misure ritenute ritorsive, di cui al primo periodo, nei confronti del segnalante è comunicata in ogni caso all’ANAC dall’interessato o dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative nell’amministrazione nella quale le stesse sono state poste in essere. L’ANAC informa il Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei ministri o gli altri organismi di garanzia o di disciplina per le attività e gli eventuali provvedimenti di competenza». Sarà che nella versione inglese quelle pratiche assumono un profilo più elegante, perché il significato vero sarebbe un altro: delazione. Per chi non lo sapesse l’Anac (in quegli anni aveva la supervisione su tutto, persino sulla retribuzione dei dirigenti del Comune di Roma) pubblica annualmente un rapporto a cura degli uffici e dei funzionari preposti alla vigilanza e alla segnalazione alle amministrazioni interessate e, se del caso, alla magistratura.
Per compiere un’attività di verifica più accurata, oltre a raccogliere tutte le denunce, l’Anac ha individuato un campione di 40 soggetti pubblici (amministrazioni ed enti alle stesse equiparate), «al fine di monitorare lo stato di applicazione della disciplina del whistleblowing in Italia, di evidenziarne le criticità e di comprendere l’efficacia dell’istituto come strumento di prevenzione della corruzione. L’attività di monitoraggio consente, inoltre, di dare evidenza alle difficoltà, anche culturali, che persistono nell’utilizzo di questa misura di prevenzione e, infine, permette di far emergere i “buoni risultati” conseguenti all’applicazione del whistleblowing». Arrivata ormai al Quarto Rapporto (relativo al 2018 e a parte del 2019) l’Anac ritiene di poter essere in grado non solo di stimare in termini quantitativi l’istituto, ma anche di compiere valutazioni qualitative sulle segnalazioni pervenute.
Per quanto riguarda la “qualità” delle segnalazioni, infatti, dal varo della normativa a oggi, si assiste, secondo l’Agenzia, a un innalzamento “qualitativo” delle segnalazioni inoltrate; sempre di più si tratta di questioni/condotte illecite che hanno una rilevanza medio-alta nelle attività delle amministrazioni, mentre sono in diminuzione le questioni che non rientrano nell’ambito oggettivo di applicazione della disciplina e le questioni c.d. “bagatellari” che portano inevitabilmente all’archiviazione delle segnalazioni. «Deve, tuttavia, rilevarsi – l’ammissione è importante – che l’Autorità non ha ancora perduto il proprio ruolo di “sfogatoio” per molti pubblici dipendenti (i sicofanti? ndr) i quali ancora vi si rivolgono non per rappresentare violazioni/disfunzioni poste in danno dell’interesse pubblico (segnalazioni fatte nell’interesse dell’integrità della pubblica amministrazione), ma per rappresentare situazioni personali, che esulano dall’ambito oggettivo della norma».
Tra le segnalazioni, il Rapporto fa notare che almeno la metà provengono dal Sud e Isole, mentre ve ne sono parecchie provenienti dai responsabili della prevenzione della corruzione e della trasparenza; il che va considerato certamente «come dato singolare, atteso il ruolo che gli stessi sono chiamati a svolgere nell’ambito dell’amministrazione di appartenenza, quale soggetto competente a ricevere le segnalazioni dei dipendenti pubblici». In sostanza, uno scaricabarile dalla periferia al centro. Il monitoraggio riferito alle amministrazioni mostra anche il numero di segnalazioni anonime che i soggetti intervistati hanno ricevuto.
In termini percentuali, ammette l’Anac, risulta cospicuo. Queste segnalazioni vengono in genere trattate, «pur nella consapevolezza che non c’è alcun whistleblower da tutelare». Dagli esiti dei questionari somministrati alle amministrazioni-campione si rileva – secondo il Rapporto – la persistenza di alcune criticità legate all’applicazione dell’istituto come, in particolare, l’utilizzo improprio del whistleblowing per segnalazioni riferite a materie non di competenza dell’ente, la scarsa qualità delle segnalazioni, la scarsa fiducia nell’istituto, la difficoltà dell’istituto ad attecchire nei contesti lavorativi, soprattutto in quelli di ridotte dimensioni. Si lamenta, poi, che molte segnalazioni denunciano presunti malfunzionamenti che non hanno nulla a che fare con la corruzione e quindi non rientrano nei casi di whistleblower.
Per dare un’idea di come funzionano veramente le cose citiamo di seguito alcuni esempi dell’incidenza delle segnalazioni anonime sul totale nell’arco temporale considerato (il 2018). MEF: 2 anonime su 11 di cui 7 provenienti da soggetti esterni l’amministrazione; Agenzia delle Entrate: 30 su 35; Sardegna: 1 su 8; Basilicata: 1 su 2; Milano:16 su 20; Palermo: 12 su 28; Roma Capitale: 1 su 4; Trieste: 1 su 3. Sanità: Ausl Bologna 11 anonime su 17; ASL Roma 1: 2 su 4; ASL Bari 14 anonime. Enti: Inps 1 su 13, ma ben 6 provenienti da soggetti esterni. Società pubbliche: RAI 21 su 52; Consip: 33 su 49: Leonardo Finmeccanica 57 su 68; AMA Roma solo 3 anonime. Non risultano (sic!) segnalazioni nelle Università. Che dire in conclusione? La lotta alla corruzione è un’impresa nobile e giusta. Purché non si trasformi – impiegando uomini, donne, apparati e mezzi – in una caccia alle farfalle sotto l’Arco di Tito.
© Riproduzione riservata