Un’indagine di corruzione, come altre, come tante. Un’indagine all’apparenza anche ben condotta e capace di incidere in un ganglio di malaffare di un certo livello. Sin qui nulla da dire, anzi non si può che essere soddisfatti. Poi, come un’ombra che rannuvola, le parole del pubblico ministero. Si duole la toga della circostanza che «i numerosi provvedimenti restrittivi emessi» in altri procedimenti «non abbiano esercitato alcun effetto deterrente rispetto alle analoghe condotte contestate agli odierni indagati nella presente vicenda». Parole che schiudono, con una certa schiettezza e sincerità, uno scenario non certo imprevisto o eccentrico, ma tenuto sempre in disparte e in ombra dai tempi di Tangentopoli in poi.

Ossia che le manette dovessero avere anche un «effetto deterrente» per i consociati. Si badi bene non per gli stessi indagati – magari arrestati in altre indagini e incalliti recidivi – ma per tutti coloro i quali operano come loro in quel mondo, si muovono in quell’amministrazione consumando altre corruzioni e altro malaffare. E qui si impone una riflessione. Non sta scritto in nessuna norma del codice che si possa rimproverare a un indagato di non aver subìto l’effetto deterrente di altre misure emesse in altri processi. Non sta scritto perché ogni misura restrittiva costituisce o dovrebbe costituire l’esito di una rigorosa valutazione “personalizzata” dei fatti in cui a rilevare dovrebbero essere solo le condotte dell’arrestato, non la sua insensibilità al monito pubblico che deriva dall’enfatizzazione mediatica di precedenti catture.

Appare chiaro, non nelle parole ora ricordate, in sé marginali, ma nell’ideologia dell’uso della custodia cautelare che esse evocano che il ricorso alle manette risente (ancora e in modo prepotente) della volontà dell’inquirente di imprimere un monito, una deterrenza nella comunità in modo da frenare ogni malintenzionato dall’idea di commettere lo stesso reato. Non è una volontà obliqua o illecita quella dell’inquirente, si badi bene, ma piuttosto appare direttamente coerente a una radicata visione della giurisdizione investigativa intesa come strumento per realizzare e affermare il controllo di legalità. Se il fine dell’attività inquirente è quello di vigilare sulla legalità/moralità (si vedano le insuperabili parole di Filippo Sgubbi in «Diritto penale totale») dei consociati e dei pubblici amministratori in particolare, allora è necessario, anzi indispensabile che ogni tintinnar di manette susciti una deterrenza ovvero la paura di subire la stessa sorte se si commetteranno gli stessi reati. E questo a prescindere da ogni “personalizzazione” e da ogni adeguamento della misura al singolo fatto in modo da affermare un’uguaglianza cieca che equipara tra loro i sudditi, senza considerarli cittadini.

Alla pena esemplare si sostituisce, anticipandola, la misura esemplare quale conseguenza diretta proporzionale e proporzionata alla callidità del reo non per ciò che ha commesso, ma per il fatto che subdolamente ha anche ignorato l’ammonimento impartito agli altri e non si è preoccupato di modificare repentinamente le proprie condotte per non incorrere nello stesso rigore.
Certo traspare in questa posizione un senso di impotenza e di sconsolato pessimismo sulla condizione della società, ma questo non può giustificare un fallo da frustrazione sul reprobo di turno. Se non si vince la partita non si può certo azzoppare il lesto attaccante avversario che continua a fare goal, pensando così di intimidire tutta la squadra avversaria e tutte le altre formazioni delle dispute a venire. Il processo ha delle regole, efficaci o inefficaci non tocca ai magistrati stabilirlo, che devono essere osservate sempre e comunque quanti reti segni l’avversario e quanto pesante possa sembrare la posizione di classifica. Semplicemente perché non esiste un campionato e non sono previsti bilanci consuntivi per l’inquirente, ma ogni processo è una partita singola, irripetibile e unica da giocare sempre con lealtà e senza rancori o accanimenti di sorta. Non si mandano segnali agli avversari, né li si intimidisce con messaggi trasversali, avvantaggiandosi degli immancabili coreuti del manettarismo (ulteriore degenerazione del giustizialismo).

Infine, trattandosi di corruzione e di appalti, proprio le considerazioni da cui ha preso avvio questa breve riflessione inducono a un ulteriore punto di analisi circa l’efficacia che la legge Severino, prima, e la legge Spazzacorrotti, dopo, hanno avuto sul versante della prevenzione del malaffare. Innanzitutto pare evidente il sostanziale fallimento in Italia dei sistemi di prevenzione della corruzione nel settore sia pubblico che privato. Le inchieste svelano mercimoni non occasionali o episodici, ma sistemici e profondamente radicati nel business che coinvolge la pubblica amministrazione. Se ne desume che i modelli di prevenzione sono praticamente carta straccia e che nessuno in verità riesce a vigilare efficacemente su quanto accade negli uffici di spesa del Moloch amministrativo del Paese. Secondariamente par chiaro che se l’intento del legislatore era quello di coltivare l’inasprimento delle pene per esercitare un «effetto deterrente» sui rei, la strada scelta sta consegnando risultati scarsi e di gran lunga distanti dall’obiettivo prefisso.

Restano, invece, in ombra strumenti importanti come l’agente sotto copertura e il whistleblowing (ossia la segnalazione anonima delle condotte illecite) e si continua ancora a puntare tutto sulle intercettazioni con un’auspicata, ulteriore agevolazione nell’uso dei trojan informatici nella conversione in legge del decreto intercettazioni. Una strada palesemente inefficace e, ormai, di corto respiro che consente di incastrare i soliti voraci “pesci piccoli” e che non riesce a colpire i protagonisti delle reti complesse della corruzione sistemica. Gli uni e gli altri, però, sembrano così somiglianti a quell’indimenticabile scena di “Guardie e ladri” in cui un ansimante Aldo Fabrizi, in divisa da poliziotto, vuole costringere a un pari esausto e riluttante Totò de Curtis, ladro incallito, a farsi ammanettare; con il secondo che, alla minaccia del primo di sparare in aria un colpo di pistola a scopo intimidatorio, gli risponde “fai pure tanto io non mi intimido”.