Due ore di Consiglio federale Lega contro due ore di faccia a faccia Meloni-Cingolani sull’emergenza gas. Il tutto a un piano di distanza nel palazzo dei gruppi di Montecitorio. Due riunioni che sono due approcci diversi, non è detto complementari, allo stesso dossier: la formazione della squadra e dell’agenda di governo di centrodestra.

E se la candidata in pectore ha voluto chiarire che sarà il premier Mario Draghi a rappresentare l’Italia nel Consiglio Ue del 20-21 ottobre a Bruxelles (“ i documenti che saranno discussi sono il frutto del lavoro dell’esecutivo ora in carica”), Matteo Salvini, al piano di sotto, nella sala Salvadori dove ha riunito lo stato maggiore del suo agitato partito, ha voluto mettere in fila priorità nel programma e desiderata sui ministeri. E quindi come affrontare il caro-energia e bloccare gli aumenti, «il dossier che in questi giorni e nelle prossime settimane assorbe tutte le energie degli uomini e delle donne della Lega». A seguire le altre priorità: «Estensione e rafforzamento della flat tax fino a 100mila euro; superamento della legge Fornero per dare opportunità ai giovani; revisione del reddito di cittadinanza; la sicurezza da riportare nelle città; via libera ai cantieri; taglio della burocrazia, valorizzazione di settori strategici come agricoltura, pesca e turismo; attuazione dell’autonomia».

Salvini scansa i giornalisti, consegna il racconto della riunione a un video, quando lascia il palazzo entra in auto fedele al nuovo stile della maggioranza imposto dalla leader di Fratelli d’Italia: evitare microfoni e dichiarazioni a margine. Anche i big della Lega fanno altrettanto: Fontana e Romeo passano veloci e sorridono, “nessuna dichiarazione”; Giorgetti, acciaccato da un vistoso mal di schiena, si lascia scappare “nessuna lista di ministri e nessun nome” che invece erano all’ordine del giorno della riunione. Incalzato, aggiunge: «Salvini è il candidato naturale alla guida del Viminale». Che è come dire buttare benzina su un incendio che si fatica da giorni a domare. Né nomi né liste ma è chiaro che dietro le priorità Salvini indica i ministeri cui ambisce la Lega: Interni, appunto; e poi Infrastrutture, Agricoltura, Lavoro, Autonomie. Sono cinque ministeri “pesanti” pur sapendo che potranno essere quattro in tutto e non tutti così di peso.

Salvini indica anche altre condizioni: no ai tecnici, ad esempio. «La Lega ha donne e uomini di valore che possono ricoprire incarichi di grande responsabilità», ha detto il segretario aggiungendo di «avere idee chiare sul da farsi e sulla squadra da portare al governo». Insomma, il Consiglio federale della Lega convocato a Montecitorio dove Meloni ha organizzato il suo blindatissimo quartier generale pre-incarico, ha il sapore amaro della manifestazione di forza e unità che sono anche l’altra faccia della debolezza, in questo momento, della Lega e del suo segretario. Salvini non si sentirà forse “assediato” come ha sintetizzato ieri la prima pagina di un importante quotidiano ma certo è in grossa difficoltà. Nel partito. E nella coalizione dove ha trascinato anche Forza Italia il cui stato maggiore è legato mani e piedi al leader leghista.

Per quanto fonti leghiste si sforzino di spiegare che “la corrente del Nord” lanciata da Bossi e Maroni (prima riunione operativa convocata dal dissidente Gianni Fava il 15 ottobre a Biassone) è “un modo per tornare a parlare con i delusi del Nord” – quindi non qualcosa contro ma in aiuto alla Lega – i malumori restano tanti e per la prima volta difficili da risolvere. Molto dipende da quanto Meloni intenderà concedere ai due alleati sconfitti, ma necessari, per far partire il governo e farlo andare avanti. In questo momento, soprattutto la Lega, è un animale ferito e tutto sommato non conviene a nessuno umiliare l’alleato sconfitto. Quindi la composizione della squadra di governo, degli uffici di presidenza parlamentari, i dossier dei primi cento giorni (flat tax e pensioni) saranno tutti passaggi decisivi per capire la stabilità del governo che verrà. Analogo discorso può essere fatto per il rinnovo dei governi regionali. Nel 2023 andranno in scadenza Lombardia, Lazio (marzo) e Friuli Venezia Giulia (ottobre).

Il centodestra ne governa due e tenta il colpaccio sul Lazio dove il centrosinistra dovrà decidere se allearsi con i 5 Stelle o il Terzo Polo (un’altra decisione che è un bivio nella tormentata storia del Pd). Il problema però sono Lombardia e Friuli. Salvini ha già blindato Fontana e Fedriga, non si toccano e guai a chi ci prova. Non siamo però così sicuri che Fratelli d’Italia voglia rinunciare al consenso crescente anche in quelle regioni. E in Lombardia l’autocandidatura di Letizia Moratti, assessore nella giunta Fontana, politica che gode di consenso trasversale, potrebbe complicare parecchio le cose. Salvini ha iniziato la riunione stigmatizzando chi lo rappresenta “sotto assedio alimentando così un clima di odio e violenza politica” per cui in un paese in grave crisi e in crescente tensione, quando “si individuano bersagli precisi poi basta una testa calda…”. Sotto assedio è la parola sbagliata. Che il leader sia in difficoltà non c’è dubbio.

Giorgia Meloni lo sa bene e non è neppure troppo dispiaciuta. I suoi niet sono arrivati forti e chiari: nomi e caselle della squadra di governo devono avere il suo via libera. Sarà lei il premier. E la lista dovrà essere concordata con il capo dello Stato. Due sembrano essere le certezze: un no per Salvini al Viminale e un altro no per Ronzulli alla Sanità. Per il resto la più votata nelle urne del 25 settembre prosegue nello stile della regola benedettina “ora et labora” applicata al rito meloniano. A parte la telefonata con Zelesnky per ribadire l’appoggio totale dell’Italia (il Copasir ha appena esaminato il quinto decreto per un nuovo invio di armi), Meloni si è riunita per due ore con il ministro Cingolani che ha spiegato la proposta contro il caro energia che l’Italia porterà domani nel vertice di Praga. Meloni ha scritto un post su Facebook intorno alle 13.

Nel pomeriggio, quando Cingolani ha lasciato lo studio di Meloni, ha dichiarato anche il premier Draghi. Tra i due c’è perfetta sintonia. «La crisi energetica – ha ribadito il premier – richiede da parte dell’Europa una risposta che permetta di ridurre i costi per famiglie e imprese, limitare i guadagni eccezionali di produttori e importatori, evitare pericolose e ingiustificate distorsioni del mercato e di tenere ancora una volta unita l’Europa di fronte all’emergenza». Sarà Draghi nelle prossime due settimane a tentare di portare a casa il risultato dopo mesi di tentativi. Poi Giorgia Meloni sarà pronta a ricevere questo scomodo testimone.

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Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.