Un appunto dice tutto: “Giorgia è supponente, prepotente, arrogante e offensiva”. Sono parole scritte da Silvio Berlusconi in queste ultime 48 ore. Il Cavaliere si porta dietro una cartellina in pelle che giovedì ha squadernato sui banchi del Senato. Gli zoom dei fotografi hanno fatto il resto. Che comunque s’era anche capito dall’espressione del volto e dai gesti, da quel “vaffa” scandito in faccia a La Russa con tanto di cartellina sbattuta sul banco. Il neo presidente del Senato, davanti al foglietto, questa volta si arrabbia. E chiede a Berlusconi di dire che è un fake…

Giorgia Meloni sta indubbiamente vincendo tutto: al primo colpo il presidente del Senato, il post-fascista Ignazio La Russa; al primo colpo la presidenza della Camera, l’antiabortista e filoputinista Lorenzo Fontana, amico personale di Matteo Salvini. Ieri mattina, alla quarta e prima votazione della seconda giornata, Fontana è passato con 222 voti. Il centrodestra ha risposto in modo compatto: mancano all’appello 14 voti ma, a differenza del Senato, non ci sono stati strappi né ferite. Nessun giallo da parte delle opposizioni che hanno tutte votato un loro candidato di bandiera (non lo hanno fatto giovedì al Senato sprecando l’occasione di far inciampare subito la maggioranza di centrodestra).

Si potrebbe così ritenere chiusa la prima fase di avvio della legislatura, l’elezioni dei presidenti di Camera e Senato a cui poi seguiranno tra martedì e mercoledì la nomina dei vicepresidenti e dei capigruppo. A quel punto sarà pronta la squadra che dovrà salire al Colle per le consultazioni (tra il 19 e il 20 ottobre). Ma per quanto una buona fetta di azzurri berluscones si affretti a minimizzare “giovedì è stato solo un episodio per rivendicare maggior rispetto ad una forza della coalizione”, la maggioranza ha un problema grosso come una casa. Il partito fondatore della coalizione rischia la balcanizzazione. “Giorgia non è disponibile a cambiamenti, è una con cui non si può andare d’accordo” ha scritto colui che nel 1994 ha fondato la Casa delle libertà, tolse dal limbo della storia An e dette proprio alla giovane Meloni l’onore di un ministero. Si chiama riconoscenza.

In politica è certamente un lusso. E Giorgia Meloni sta dimostrando, secondo Berlusconi, di non avere questa sensibilità. Un dato questo oggettivo non solo perché immortalato dagli appunti galeotti del Cav ma perché così stanno andando le cose in queste tre settimane. E se questo vale per i nomi della squadra di governo – come dimostrano i ripetuti no all’upgrade nel Consiglio dei ministri di Licia Ronzulli, di Casellati e Sisto alla Giustizia, Guido Bertolaso alla Sanità e tanti altri – il timore fondato è che la stessa modalità “prepotente” sarà applicata anche ai dossier governativi. “Ricevo risposte offensive a qualunque cosa io chieda. Non lo merito” è un’altra frase detta da Berlusconi in queste ore.

Se qualcuno spera che i temi identitari cari a Fratelli d’Italia (“Ignazio, un vero patriota siede nella seconda carica dello stato”) e alla Lega (famiglia e amicizia con la Russia blindati dalla figura di Fontana) si possano considerare esauriti con l’elezione di La Russa e Fontana, altri temono che invece la prepotenza proseguirà oltre i nomi anche sui temi economici, sociali, dei diritti, in politica estera. Per Forza Italia sarebbe la fine: il suo ruolo di garanzia e resistenza rispetto a pulsioni nazionaliste, sovraniste, antidemocratiche sarebbe ogni giorno umiliato. Di tutto questo si è ragionato giovedì sera nella cena a Villa Grande con i senatori e nelle riunioni dove si è rivisto anche Gianni Letta. Che fare allora? “Meglio restare dentro, seppure umiliati, con la speranza poi di intervenire in qualche modo? O far saltare il banco subito dicendo che Forza Italia non c’entra nulla con questa gente” sono le domande che interrogano deputati e senatori, anche chi è rimasto fuori dalle liste, motivo questo di infinite tensioni e rivedicazioni.

Il partito è diviso in due. Da una parte chi sta con Antonio Tajani, gradito a Meloni e candidato alla Farnesina dove si porterebbe come consiglieri alcuni pezzi importanti della storia del partito come Valentino Valentini e prendere quello che viene. Sono i sostenitori del “meglio stare dentro che fuori”. Poi si vedrà. Dall’altra parte ci sono i filo-Ronzulli, pronti da subito a vendere cara la pelle. Questa parte “resistente” è rimasta un po’ spiazzata nelle ultime ora dalle scelte di Matteo Salvini con cui Ronzulli aveva stretto un patto di acciaio. Il leader della Lega, tutto sommato soddisfatto dei ministeri che avrebbe ottenuto (Infrastrutture, Agricoltura, Affari regionali e Autonomie e all’Interno il prefetto Piantedosi, capo di gabinetto ai tempi di Salvini al Viminale) ha fatto una scelta pragmatica: stare dentro e iniziare la partita del governo di centrodestra.

Non può esistere alternativa. Nelle ultime 48 ore ha consigliato Berlusconi, molto adirato e offeso, di fare altrettanto. Al momento è la linea destinata a prevalere. I tre partiti saliranno insieme al Quirinale. I 14 voti mancanti sono di chi avrebbe “sbagliato” a scrivere il nome nella scheda (solo Fontana invece che Lorenzo Fontana) e di chi nella Lega avrebbe preferito Molinari. Andranno avanti in tre. Ma la ferita è profonda, non si può curare. Il suggerimento a Berlusconi è questo: “Deve cambiare gestione del partito e nominare al governo qualcuno dei fedelissimi rimasti fuori dalle liste per via di scelte scellerate dell’attuale dirigenza”. La parola più ripetuta: malcontento.

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Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.