Son da poco passate le 15,30 di giovedì 3 febbraio quando un’inconfondibile nebbiolina da vecchia sinistra democristiana comincia a calare sul teatro traboccante di Montecitorio, man mano che Sergio Mattarella va inanellando con voce bassa e tono curiale le sue raccomandazioni al Parlamento riunito in seduta comune per benedire l’insediamento del bis presidente. Avvolge Pierferdinando Casini, dinoccolato, seduto un po’ sbracato, che guarda con sorriso fisso quel podio dove ha sperato di riuscire a salire lui e l’ha mancato anche questa volta (lungo applauso al suo ingresso in Aula, quasi affettuoso, Casini che ringrazia col saluto disinvolto dell’attore consumato; a cerimonia conclusa lo si ascolta per i corridoi ringraziare chiunque “grazie grazie grazie di tutto”, sorridono i passanti, si inchinano impeccabili i commessi).

La nebbiolina dc si addensa nei passaggi più scanditi del discorso di Mattarella, avvolge Maria Elisabetta Casellati – abito nero, mascherina arancione e fissità marmorea – che ogni tanto lascia rotolare giù dal bancone di presidenza occhiate tristi come secchiate d’acqua gelida. Nel banco del governo Luigi Di Maio, fasciato da un abito scuro di perfetta fattura, sta accanto a Draghi, il premier sembra sempre seduto scomodo, sull’orlo della sedia. Draghi parla solo con lui. Pare sorridergli persino. Il ministro degli Esteri, esitante, sembra un bambino col papà. Lo guarda con gli occhioni, ripete i suoi gesti, fa tutto quel che fa lui una frazione di secondo dopo di lui. Draghi applaude in ritardo un passaggio, Di Maio esita e parte con l’applauso a ruota, appena un secondo dopo di lui. Draghi si volta a guardare Mattarella applaudendo. Di Maio, a specchio, si volta pure lui. Anche l’inclinazione del corpo è la stessa, anche il lieve movimento della testa. Tale e quale.

Regge con spalle larghe il momento per lui tempestoso Di Maio, non un cenno di nervosismo, non uno sguardo cupo, sempre quell’aria vispa, quel lieve inchino verso l’interlocutore anche quando parla con Crippa, il capogruppo grillino alla Camera, che corre a confabulare un attimo prima dell’inizio della cerimonia e poi torna su al suo scrano quasi di corsa e si siede di schianto tra gli sguardi non tutti amichevoli del Movimento ormai esploso. Di Maio è sciolto, ma supervigile, sensorio, sembra un gatto all’erta. Sente il nemico muoversi sotto le foglie ed è pronto a coglierne il fruscio. Sa che la brace è pronta e la carne da cuocere è la sua. Ha l’aria di chi vende cara la pelle. Lassù sui banchi della destra Giorgia Meloni prende appunti, nel passaggio presidenziale sul “governo Draghi… ampio sostegno” si guarda attorno come una tigre prima del salto che azzanna. Ma si alza in piedi anche lei a quasi tutte le cinquantadue interruzioni da applausi. Non applaude il passaggio presidenziale sul “non posso e non ho inteso sottrarmi…”. Schizza in piedi sui richiami alle prerogative non scavalcabili del Parlamento.

Per il resto questa assemblea ben assortita tra superstiti politici di lungo corso, qualche affarista, numerosi ragazzini sperduti, alcuni maneggioni, capi clan, capi di sottocorrenti, sembra sentire allo stesso modo lo stesso sollievo all’udire le lodi alla centralità del Parlamento. Nel banco del governo troneggia Giorgetti, aria livida, stanca. Massiccio, se ne sta là fermo, pare alzarsi controvoglia per gli applausi comuni. Se ne sta fisso come un masso e ogni tanto guarda quel troncone di partito saldamente in mano a lui. Salvini non c’è, è risultato positivo al tampone Covid. Trentotto minuti e Mattarella ha concluso. Saluta e se ne va. Dopo la lunga ovazione finale tutti di corsa a premere verso l’uscita.
Ed eccoli qua i peones, finalmente volti distesi in Transatlantico, rilassati, quasi amichevoli. Cordiali come una comitiva d’amici che ha vinto insieme al Superenalotto.

Prima di tutto dovevano riuscire a non morire, dovevano respirare con la cannuccia sotto la massa d’ansia della settimana della corsa al Colle della quale non hanno capito moltissimo. Hanno finito per alzare tutti insieme la testa. I giochi non l’hanno diretti loro, ma hanno comunque vinto. Stipendio e vitalizio sono salvi. E hanno consumato la loro vendetta contro l’alzata di spalle di Draghi, contro quel sottile ghigno, sbarrandogli la strada al Quirinale. La pozione dev’esser stata amara per lui, quando entra in Aula un applausino tiepido e veloce, sembrano dirgli in coro: non si snobbano i garzoni. A Orfini il discorso di Mattarella è piaciuto molto, gongola: “Bel discorso, da statista”. I Cinque stelle hanno applaudito i passaggi sulla giustizia. “Sì, tutti dicono di volerla riformare la magistratura, poi speriamo di accordarci sul come”.

Contento? Avete vinto voi senza far quasi nulla. “Non solo noi, non solo noi, non ci si intesta l’elezione del presidente, è stata una scelta condivisa”. Passa Maurizio Gasparri: “Oh, a me m’è piaciuto. Sulla giustizia è stato chiaro, anche sui poteri forti, certo, son discorsi di circostanza, ognuno ci vede quel che gli pare, io ci ho visto Amazon”. Preoccupato per la Lega che freme? “Bisogna mantenere la tessitura, noi tra noi e noi con loro. Vediamo un po’ se riusciamo nel capolavoro di regalare alla sinistra un timone che non ha”. Conferma il solco tra Bernini e Casellati. “C’è amarezza per i voti mancati, certo. Ma era chiaro che non poteva farcela. Se la prende però con le persone sbagliate”.