Tre indizi fanno una prova. E la prova parla di una maggioranza allo sbando, arrabbiata, sfilacciata, difficile da governare. Dice ad esempio che a ieri non era stata trovata la quadra sulle misure per il Natale. Non un problema da poco in un mese appena iniziato e in cui cadono tre voti chiave di questa legislatura: Mes, immigrazione, legge di bilancio.

Il primo indizio resta sui taccuini alle 14 e 50, palazzo Madama, fuori dalla sala del governo dove è in corso un vertice di maggioranza dopo la mattinata ad ascoltare l’informativa del ministro Speranza sulle regole per «non fare le vacanze» ed evitare che «la terza ondata di Covid interferisca con la stagione dei vaccini». Alla riunione partecipano i ministri Speranza e D’Incà, il viceministro Sileri, il sottosegretario Castaldi e i capigruppo Marcucci (Pd), Licheri (M5s), Faraone (Iv), De Petris (Leu-Misto). Tema all’ordine del giorno: le misure del Dpcm atteso per oggi che dovrà dare le regole per le prossime settimane.

I cronisti sentono più volte toni di voce alterati. Vere e proprie urla. Il capogruppo esce con lo sguardo dritto e l’espressione cupa: «Non c’è il testo del Dpcm. La realtà è che non c’è più la maggioranza…». A ieri sera erano ancora troppi i punti su cui manca l’accordo: orario ristoranti, spostamenti tra comuni e regioni, utilizzo delle seconde case. I gruppi parlamentari sono l’uno contro l’altro, divisi al loro interno e ciascuno ha richieste che non trovano risposta nel ministro e nel governo. Marcucci (Pd) non sposa, ad esempio, la linea rigorista del governo. Italia viva chiede più flessibilità nel rispetto delle libertà individuali e della libertà d’impresa e soprattutto «più chiarezza per poter programmare vita, lavoro e anche il tempo libero».

È la storia di questi mesi, da settembre a oggi. E trovare la sintesi pare sempre più difficile. L’unica cosa evidente è che oggi ci sarà un Dpcm che prorogherà il vecchio Dpcm dell’Italia a colori del 3 novembre scorso. Le regole per le vacanze, valide dal 21 dicembre al 6 gennaio, saranno dettate da uno specifico decreto che non è ancora pronto. È una questione giuridica: poiché le regole per il Natale inibiranno diritti fondamentali dell’individuo, il presidente Conte non può procedere con un Dpcm. In giro per il paese si parla di class action di intere categorie pronte a chiedere il conto.

Il secondo indizio si manifesta sempre al Senato. Le comunicazioni del ministro Speranza prevedono il voto di risoluzioni. Quella della maggioranza sono tre righe che si chiudono con “le approva” e però portano la firma dei capigruppo in commissione Salute e non dei capigruppo. Non è un dettaglio. Nella riunione di maggioranza di prima mattina i capigruppo avevano provato a trovare una sintesi. Il fronte aperturista composto da esponenti di Italia Viva ma anche del Pd ha spinto per una risoluzione parlamentare che avrebbe impegnato il governo su alcuni punti come la possibilità per i ristoranti di restare aperti il 25, il 26 e il primo gennaio; il diritto di raggiungere le seconde case fuori regione; la mobilità tra i comuni nei giorni delle feste. «Irricevibile» ha fatto sapere il governo. Hanno tutti dovuto ingoiare quel “le approva”. L’assenza delle firme dei capigruppo è un segnale chiaro al governo: «Così non possiamo andare avanti».

Lo schema si ripete nel pomeriggio alla Camera. Gli interventi in aula sono ancora più duri. A dare man forte al ministro Speranza arrivano prima Franceschini e poi il segretario Zingaretti. «Stiamo con Speranza» dicono in coro, «solo i sacrifici a Natale evitano la terza ondata». Anche i toni tra il paternalismo e il terrorismo, i «cittadini come sudditi che devono obbedire», non piacciono alla pancia parlamentare del Pd. Si arriva così al terzo indizio, che conferma i primi due. In Commissione Bilancio della Camera il presidente Fabio Melilli (Pd) e i tecnici stanno affogando tra settemila emendamenti. Peccato che il 16 dicembre la legge debba passare al Senato.

Melilli ha già fatto capire l’andazzo, al governo e al Parlamento: una trentina di norme e articoli, quelli che proprio non c’azzeccavano nulla, sono stati stralciati. E al governo è stato spiegato che «dovrà essere messo in cantiere il decreto mille proroghe». Un paio di migliaia di emendamenti, di maggioranza e opposizione, sono stati cestinati. Il Parlamento, tutto, ha a disposizione 800 milioni per rispondere alle richieste dei territori. Si susseguono incontri di maggioranza e opposizione in cerca di una sintesi. Il problema è che i capigruppo non tengono più i gruppi. Soprattutto M5s e Forza Italia. La faccenda del Mes. su cui si voterà il 9 dicembre rischia di far saltare il banco: 17 senatori e 52 deputati 5 Stelle hanno annunciato che non sono d’accordo con la linea di Crimi e Di Maio.

Una parte di Forza Italia medita di non rispettare le indicazioni di Berlusconi. Su tutto ciò grava il macigno della super task force con 6 manager e 300 tecnici e poteri speciali in deroga che dovrà gestire i 209 miliardi del Recovery fund. I gruppi parlamentari di Pd, Iv e Leu non ne vogliono sentir parlare: «È un governo parallelo che scavalca i ministri e svuota il Parlamento». I “poteri speciali” sono stati annunciati come emendamenti alla legge di bilancio. Ben 18. Finora non sono arrivati. In Commissione si augurano che ciò non debba accadere. «Facessero un decreto a parte…». I ministri Amendola e Patuanelli ieri hanno confermato che «la tecnostruttura ci sarà perché la chiede la Commissione». Il premier Conte se l’è già venduta come cosa fatta. C’è un problema in maggioranza. Anzi tre. Forse anche di più. Le voci di rimpasto corrono sottotraccia sempre più intense.

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Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.