Il bilancio dei suicidi in carcere, nell’ultimo periodo, ha raggiunto numeri allarmanti. I dati che arrivano dal mondo dietro le sbarre rilevano realtà sempre più drammatiche: il 30 per cento dei detenuti è in attesa di giudizio, il 40 per cento ha problemi di tossicodipendenza, circa la metà fa uso di psicofarmaci. Sono numeri che dovrebbero servire a tracciare statistiche che dovrebbero servire alla politica e alle istituzioni per intraprendere azioni mirate. Invece, restano statistiche rispetto alle quali la politica si mostra indifferente. E alla fine, quindi, i drammi diventano solo numeri. Ne parliamo con Paolo Conte, avvocato penalista e osservatore dell’associazione Antigone in Campania.

Le carceri in Italia, e soprattutto in Campania, sono vecchie e inadeguate sia sotto il profilo strutturale sia sotto il profilo della gestione della popolazione detenuta.
«Sì, si tratta di strutture antiche e adeguate a case circondariali ormai da molto tempo. Pensiamo al carcere di Poggioreale o al carcere femminile di Pozzuoli. Si tratta di strutture concepite per una detenzione a vocazione custodialistica, non hanno spazi per la socialità, le celle sono di dimensioni relativamente grandi ma ospitano numerosi detenuti costretti a molte ore di inattività. Di recente, un po’ a macchia di leopardo su tutto il territorio nazionale, si sta tornando da un regime a custodia aperta a un regime a custodia chiusa. La custodia aperta, quantomeno nei reparti di media sicurezza, quelli che ospitano detenuti comuni, prevedeva celle aperte per otto ore al giorno per cui i detenuti avevano la possibilità di andare nella stanza della socialità o spostarsi da una cella a un’altra, usufruendo degli spazi nei corridoi. Si tratta di un regime introdotto dopo la sentenza Torregiani che condannava l’Italia per gli spazi inumani riservati ai detenuti. Ora si sta tornando al regime a celle chiuse che costringe i detenuti a trascorrere quasi tutto il giorno in celle sovraffollate, senza spazio per muoversi. Parliamo di celle dove sono recluse anche dodici persone. Stanze con letti a castello a tre piani il cui ultimo piano sfiora il soffitto, stanze in cui le brande non possono essere disposte diversamente se non davanti alle finestre che quindi restano o sempre aperte o sempre chiuse, stanze in cui non c’è posto in piedi per tutti per cui si è costretti a trascorrere la maggior parte del tempo distesi sul letto. C’è poi una questione di fondi. Sono cauto nel dirlo ma per le case circondariali, qual è per esempio Poggioreale, non sono previsti gli stessi fondi previsti per le case di reclusione, questo perché in teoria nelle case circondariali dovrebbero esserci detenuti in attesa di processo e non condannati da rieducare. Nella realtà, invece, accade che detenuti in attesa di giudizio vengano reclusi in case di reclusione e detenuti con condanne nelle case circondariali».

Confusione, caos, diritti mortificati. Non c’è finalità rieducativa in un carcere che funziona così. Anzi, la sensazione è che gli istituti di pena si stiano trasformando sempre più in una sorta di lazzaretti, di manicomi.
«C’è un uso molto ampio di psicofarmaci, questo chiaramente è un dato da leggere con attenzione e cautela. Esaltando la questione psichiatrica in carcere c’è il rischio di tornare a una logica di contenimento manicomiale. Sta di fatto che nelle carceri ormai anche persone che non hanno mai fatto uso di psicofarmaci, a causa della sofferenza alla quale il carcere induce, sono portati a fare uso di “farmaci al bisogno” come si dice così nel gergo carcerario, cioè ad assumere gocce per dormire e antidepressivi».

Sono spie dei drammi a cui stiamo assistendo. Cinquantanove suicidi dall’inizio dell’anno, centinaia di atti di autolesionismo.
«A ciò aggiungiamo che c’è stata una trasformazione della popolazione detenuta negli ultimi decenni. Attualmente abbiamo una popolazione detenuta che in percentuali sempre più alte (40 per cento) è tossicodipendente, proviene da situazioni di estrema marginalità e soffre di disagi psichici. La tossicodipendenza si accompagna spesso a problemi di disagio psichico e lo vediamo anche dalle visite che facciamo come osservatori di Antigone, c’è una percezione immediata e forte del disagio psichico che c’è all’interno degli istituti di pena. Non vorrei che fossero parole troppo forti, ma davvero quando si entra in carcere oggi sembra di entrare in dei lazzaretti, si ha la percezione forte del disagio che c’è. Ma questo è un aspetto che non va frainteso: non vuol dire che bisogna spostare i detenuti dalle carceri alle Rems, si rischierebbe un ritorno alle logiche manicomiali. Il dato dovrebbe servire invece ad adottare iniziative per potenziare i servizi territoriali di salute mentale, con percorsi di assistenza mirati e in grado di seguire il detenuto sul territorio. Si eviterebbero tanti di quei suicidi a cui abbiamo assistito quest’anno».

I detenuti in carcere sono anche troppi come numero. Il sovraffollamento è un problema da sempre…
«Basti pensare che, secondo dati del Ministero dell’Interno, i numeri assoluti dei reati sono in diminuzione ma il numero di detenuti è in aumento. Inoltre, è cambiata la tipologia di reati per cui si va in carcere: la categoria più ampia è quella dei detenuti per reati contro il patrimonio, e negli ultimi decenni anche quella dei detenuti per reati legati alla detenzione o al traffico di stupefacenti».

La Campania ha i numeri più elevati.
«È la regione più rappresentata nelle carceri italiane, copre circa il 19 per cento della popolazione detenuta a livello nazionale. Abbiamo talmente tanti detenuti che li esportiamo: nelle carceri campane circa l’80 per cento dei reclusi è autoctono ed è campano circa il 10 per cento dei detenuti reclusi nelle strutture di altre regioni».

Un altro dato che dovrebbe far riflettere la politica…
«Sì perché, a voler essere più realisti delle teorie di Lombroso, le ragioni di questa realtà sono da ricercarsi in un tasso di disoccupazione che in Campania e al Sud è doppio o triplo rispetto a regioni come la Lombardia, in un reddito procapite che è meno della metà di quello delle regioni del Nord».

Tutte ragioni, dunque, che riguardano la gestione sociale ed economica del territorio. Politica, se ci sei, batti un colpo!

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Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).