Sulla notizia di ogni scandalo giudiziario, di ogni caso di malversazione togata, di ogni gratuito rastrellamento antimafia, di ogni soverchieria inquisitoria, di ogni vita rovinata dall’abuso di giustizia, ci costringiamo alle solite precisazioni: e cioè che lo scandalo riguarda una parte minoritaria per quanto potente del potere giudiziario, mentre la gran parte dei magistrati è specchiata; che la malversazione è in una subdola nicchia, ma non coinvolge i tanti che adempiono con cura ai doveri del proprio ufficio; che la giustizia “a strascico”, con la militarizzazione di intere regioni trasformate nel giocattolo del PM rivoluzionario, costituisce pratica preoccupante, ma alla quale non si abbandonano i molti che al contrario fanno uso più cauto del proprio armamentario; che la noncuranza cinica con cui si assiste alla distruzione della vita altrui per effetto del proprio errore, del proprio abuso, della propria brama di affermazione, è caratteristica di pochi, non dei tanti che invece risentono intimamente e con cruccio di poter far tanto male a un proprio simile.

Ma rischia ormai di essere ipocrita questo affrettarsi a tanto precisare. Rischia di accantonare una verità che ormai si è piantata al centro della faccenda: e cioè che proprio la sanità del grosso della magistratura, proprio la preponderanza, tra i magistrati, di gente che lavora coscienziosamente per l’applicazione della legge uguale per tutti e non partecipa al trafficare dell’eversione giudiziaria né si lascia andare alla strafottenza con cui le star della magistratura televisiva e giornalistica ridacchiano delle proprie vittime, proprio insomma l’estraneità di tanti al malcostume impunitamente esibito da pochi, è ciò che dovrebbe spingere quella maggioranza a farsi sentire, a costituirsi parte interessata nel processo di riordino e riconduzione a legalità dell’azione giudiziaria di cui da tempo, ma ormai improrogabilmente, ha bisogno il nostro ordinamento democratico. Altrimenti l’essere inerte “parte buona” di quel sistema diventa, da condizione assolutoria, motivo di condanna.