Giunta in Gazzetta ufficiale la riforma del processo penale ed essendo prossima al suo epilogo parlamentare quella del processo civile, non resta che metter mano alla modifica della legge elettorale per la composizione del Csm. Una via dolorosa e lastricata di insidie che, però, poco avrà in comune con la battaglia che ha preceduto la modifica della prescrizione voluta dal ministro Cartabia. A quel tempo a scendere in campo in modo decisivo contro il progetto iniziale sono stati nel corso delle audizioni parlamentari e innanzi ai media, i big della magistratura inquirente italiana. Pubblici ministeri fortemente accreditati presso la pubblica opinione e che rivestono posizioni autorevoli nella geografia giudiziaria del Paese.

La loro presa di posizione è stata talmente incisiva e determinante da aver suscitato finanche le proteste di settori organizzati della magistratura che hanno lamentato il fatto che si sia discusso solo di procedimenti di criminalità organizzata, mettendo da parte le più articolate critiche che erano state mosse al progetto Cartabia. Insomma, si è detto che è stato un intervento a piedi uniti che ha riguardato un aspetto, tutto sommato marginale, della riforma della prescrizione sol che si consideri che i processi di mafia hanno praticamente sempre imputati detenuti e sono insensibili a qualsiasi improcedibilità. La riforma della legge elettorale del Csm dovrà fare a meno di questa imponente forza d’urto che la politica ha immediatamente blandito, riscrivendo ampiamente la riforma Cartabia pur dopo l’accordo di maggioranza. Un risultato che è apparso ai soliti commentatori di grande rilievo, ma che gli esperti hanno guardato con un certo scetticismo, sapendo bene che il metronomo processuale per i delitti di mafia è scandito dalla custodia cautelare e conosce corsie privilegiate.

Tolto dalla prossima partita quello che, solo per agevolare la discussione, potremmo definire come il “partito dei pubblici ministeri”, ma che in realtà è una galassia di asteroidi che entrano spesso in collisione tra loro, la battaglia sulla legge elettorale sarà molto più ardua da combattere per la corporazione. Per la semplice ragione che la magistratura associata non è in grado di mobilitare la stessa forza d’urto e perché quei protagonisti sono totalmente disinteressati alle vicende del Csm e delle correnti associative che in esso si proiettano. Anzi, a parte il fatto che il procuratore De Raho è a un passo dalla pensione, tutti gli altri oppositori della riforma Cartabia appaiono completamente disinteressati alle sorti del Csm che, in più di un’occasione, hanno pure additato come fonte di ingiustizie e di immeritate bocciature. Certo, c’è in campo l’autorevolezza del presidente dell’Anm e di altri protagonisti non marginali del dibattito. Ma, notoriamente, questi non hanno addentellati nelle sacrestie dei partiti e nelle redazioni dei giornali; senza contare che la vicenda Palamara dissuade dalla ricerca “confidenziale” di sostegni e dai troppi inciuci.

Questa volta la magistratura italiana si accinge alla madre di tutte le battaglie, praticamente a mani nude. Indebolita, sfibrata, divisa, litigiosa, sospettosa. Incerta sulla sorte che avranno le plurime inchieste aperte sulla Loggia Ungheria. Attonita di fronte allo sgretolarsi della legittimazione di importanti uffici giudiziari del paese. In parte rassegnata al peggio e incapace di formulare proposte che suscitino l’attenzione della pubblica opinione e ne attirino il sostegno. Persino Giovanni Canzio, importante presidente emerito della Cassazione, in una recente intervista ha fatto propria l’esigenza di mettere mano a una Corte di giustizia disciplinare che sia distante e separata dal Csm, auspicando una riscrittura della Costituzione sul punto. Un j’accuse certo moderato nei toni, ma molto più importante di quanto si possa leggere nelle fatiche letterarie de Il Sistema perché proviene da un componente di diritto del Csm e dal presidente dell’organo (la Cassazione) chiamato a valutare la legittimità delle sentenze disciplinari dello stesso Csm. Un doppio cappello che conferisce grande autorevolezza alla sua presa di posizione e che segna una condanna pesante verso la gestione di una delle principali competenze costituzionali dell’Organo di autogoverno, ritenuta minata dalle appartenenze correntizie.

Si avvicinano i giorni della riforma perché vicina è, tutto sommato, la scadenza del Csm in carica e nessuno vuole tornare a votare con la legge in vigore. La ministra Cartabia, per ora, tace e ha a disposizione i lavori della Commissione Luciani che ha proposto un complesso meccanismo di voto che dovrebbe evitare l’occupazione correntizia del Csm. Però. Però non possiamo sottrarci a una domanda che sorge proprio dal misurare la diversità dell’impegno profuso contro la riforma del processo penale rispetto a ciò che è prevedibile possa accadere nelle prossime settimane, quando molti taceranno e, sotto sotto, plaudiranno a un Csm indebolito e alle correnti punite. Si staglia il pericolo del riproporsi di una magistratura controllata, o comunque potentemente influenzata, da toghe per lo più autoreferenziali che, senza alcuna mediazione, parlano alla pubblica opinione e ne cercano il consenso, che misurano la propria forza mediatica, che rivendicano l’assenza di riferimenti culturali condivisi.

Un modello svincolato dal tanto vituperato associazionismo che, però, non coincide tutto con i Palamara papers e che ha in sé una funzione importante anche di controllo sull’esercizio delle funzioni del Csm che il voto riassume ed esalta. È vero, il sorteggio scardinerebbe il sistema e il Sistema, ma per consegnare, forse, la rappresentanza sociale della magistratura a troppi José Doroteo Arango Arámbula, meglio noto come Pancio Villa.