Doveva essere la “madre” di tutte le riforme nel settore giustizia. Quella da approvare con la massima urgenza, senza perdere altro tempo. E invece, nonostante i richiami a fare presto anche da parte del capo dello Stato, in Parlamento ad oggi non solo non è iniziata alcuna discussione, ma non è nemmeno stato depositato un testo base. Stiamo parlando della riforma del Consiglio superiore della magistratura, la riforma da tutti invocata dopo lo scoppio del Palamaragate a maggio del 2019.

Il primo ad attivarsi fu l’allora ministro della Giustizia Alfonso Bonafede che, trascorsi pochi giorni dai fatti dell’hotel Champagne, si presentò alle Camere ed illustrò il suo progetto di riforma che avrebbe messo fine allo strapotere dei gruppi della magistratura associata all’interno del Csm e alla lottizzazione delle nomine. La riforma, disse con tono solenne il Guardasigilli grillino, «non sarà punitiva» e dovrà «rilanciare il prestigio» del Csm, «depurandolo dal rischio di degenerazioni del correntismo e da possibili condizionamenti delle politica». Il sistema elettorale dei togati di Piazza Indipendenza, puntualizzò Bonafede, sarà affidato ad una norma ad hoc perché è un tema su cui «il Parlamento deve avere totale centralità». Centralità a parte, di testi in Parlamento, sia durante il Conte Uno che durante il Conte Due, non ne arrivò però nessuno.

Fino allo scorso febbraio, quando si insediò il governo Draghi e Bonafede traslocò da via Arenula, la Commissione giustizia di Montecitorio aveva infatti effettuato solo delle “audizioni” esplorative. L’arrivo di Marta Cartabia, e il conseguente clima di concordia nazionale, sembrò essere la volta buona per riformare il Csm. La neo ministra della Giustizia, sulla riforma dell’organo di autogoverno delle toghe, usando un fraseggio ottocentesco, mise però subito le mani avanti: «Non debba nutrirsi l’illusoria rappresentazione che un intervento sul sistema elettorale del Csm possa di per sé offrire una definitiva soluzione alle criticità che stanno interessando la magistratura italiana, le quali attingono invero a un sostrato comportamentale e culturale che nessuna legge da sola può essere in grado di sovvertire». Trascorsa qualche settimana, Cartabia diede incarico ad una Commissione di elaborare un progetto di riforma del Csm.

La Commissione, insediatasi lo scorso marzo, era presieduta dal professore Massimo Luciani noto alle cronache, oltre per essere il presidente dei costituzionalisti, per aver spesso difeso i provvedimenti del Csm davanti al giudice amministrativo. Luciani, ad esempio, assiste l’attuale procuratore di Roma Michele Prestipino contro chi ritiene la sua nomina, come il procuratore generale di Firenze Marcello Viola, illegittima. Luciani, a parti invertite, aveva assistito lo scorso anno Piercamillo Davigo contro la decisione del Csm di farlo decadere da componente di Palazzo dei Marescialli. La Commissione, composta quasi interamente da magistrati di area progressista, dopo alcuni mesi di lavori, ha partorito un meccanismo elettorale che, a detta di molti, invece di eliminare il potere delle correnti lo aumenterà a dismisura.

Luciani, infatti, ha previsto, a pena di nullità del voto, l’obbligo di esprimere “almeno tre preferenze”. Un sistema che si presterebbe al controllo del voto da parte dei gruppi organizzati e che ricorda da vicino i meccanismi elettorali, poi abrogati, della Prima Repubblica. Bocciata senza appello l’ipotesi del sorteggio. «Se questa è la riforma che dovrebbe togliere potere alle correnti, meglio non cambiare nulla per evitare di avere effetti assolutamente controproducenti», il commento del capogruppo in Commissione giustizia alla Camera Pierantonio Zanettin (FI), favorevole al sorteggio. E proprio sul sorteggio l’ex zar delle nomine era stato chiaro. «La riforma più temuta in assoluto dall’Associazione nazionale magistrati era quella del sorteggio», aveva detto Luca Palamara in audizione davanti alla Commissione antimafia qualche settimana fa.

E veniamo alle note dolenti. La riforma del Csm è una legge delega. Quindi dopo la sua approvazione serviranno i decreti attuativi. L’attuale Csm scade fra un anno e il voto per il suo rinnovo sarebbe previsto, come negli passati, per il prossimo mese di luglio. Ed infatti le correnti già sono all’opera per le candidature. Il tempo, dunque, stringe: per uscire dall’impasse ed evitare che il prossimo Csm sia eletto con il sistema di voto “by Palamara” dovrà scendere anche questa volta in campo Mario Draghi.