Con l’ansia a mille l’Italia intera segue l’emergenza infinita che sta mobilitando l’intero sistema di Protezione Civile nei fragilissimi territori dall’Appennino emiliano alla Bassa Romagna e alle Marche, un mosaico di paesi e città, montagne e pianure da giorni martellate da piogge battenti con esondazioni di rii, torrenti e fiumi e un numero impressionante di frane e smottamenti.

In poche ore, dal cielo solo ieri è piovuta l’acqua che può cadere in sei mesi o anche in un anno, 420 mm su terreni seccati da lunghi mesi di siccità che respingono acqua più che assorbirla, o che poi diventano molto saturi e non l’assorbono. E la pioggia sta sollevando i corsi d’acqua dal quasi zero idrometrico a cinque o sei metri di altezza dando alle loro discese verso il mare una terrificante potenza esplosiva. L’ampia fascia tra la Romagna e le Marche è un elenco di strade chiuse, ferrovie bloccata tra Rimini e Faenza e Forlì, di oltre un migliaio di evacuati, di aree urbane allagate e in grandi difficoltà, con una Riccione irriconoscibile come tutta la riviera romagnola con allagamenti al pronto soccorso, nei sottopassi e nei piani terra.

I sindaci lanciano appelli a non mettersi in macchina e a salire e restare nei piani alti. Dal bolognese al ravennate e al faentino e sulla riviera romagnola le scuole rimarranno chiuse anche domani per condizioni meteo in continuo peggioramento, e per i corsi d’acqua che continuano a salire oltre le soglie di allerta o che sono già fuoriusciti dagli alvei diventati “zone rosse”. Ieri si è aggiunta anche Senigallia, con l’incubo di una nuova piena del fiume Misa, e già con strade sommerse e il sistema fognario in tilt, sottopassi chiusi e fossi tracimati.

Foto Gabriele Moroni/LaPresse

Il sindaco Massimo Olivetti ha chiuso tutte le attività commerciali del centro storico e ha ordinato di salire ai piani alti. Gli occhi sono puntati sui livelli del Nevola e del Cesano, ma soprattutto sul Misa. E dall’emergenza in corso riemerge l’incredibile storia del Misa, il fiume che sfocia a Senigallia dopo aver percorso 45 chilometri, torrentizio e facile a passare da secccome fino a poche ore fa a farsi improvvisa valanga d’acqua dal Colle Ameno da cui nasce. Si è edificato vicino al fiume, in zone golenali, si sono costruiti ponti con campate che in caso di piena diventano imbuti, si sono cementificati e ristretti molti fossi e torrenti che davano sfogo alle sue acque. E lui ha alluvionato di brutto Senigallia nel 1940, nel 1955 e nel 1976, nel 2014 con tre morti e poi con undici morti e due dispersi nella piena del 15 settembre 2022.

Ma che storia! Dopo tante fuoriuscite dagli argini, 41 anni fa, mentre Tardelli alzava la Coppa del mondo, il Governo Spadolini decise di far progettare l’opera idraulica che doveva, e deve, proteggere Senigallia e parte delle Marche dalle sue piene. Il successivo Governo Fanfani nel dicembre 1982 confermò le risorse, quattro miliardi di vecchie lire, vincolate per una cassa di espansione che avrebbe dovuto smaltire tre milioni di metri cubi di acque di piena, per far innalzare argini e per dragare tratti insabbiati. L’opera era collocata a otto chilometri dalla foce, in località Bettolelle-Brugnetto. Iniziarono però le proteste locali perché l’area di laminazione era “troppo grande e impattante”, un “ecomostro”, con “troppo cemento” anche se cemento non c’era. Allora rimisero mano al progetto per ridisegnarla più ridotta di 800mila metri cubi. Si parte? Macché, l’opera rimase disegnata sui fogli di carta e i quattro miliardi furono trasferiti alla Provincia di Ancona. Lì rimasero parcheggiati e del Misa tutti si dimenticarono.

Finché non arrivò il drammatico 3 maggio 2014, un sabato. In una manciata di minuti il fiume saltò gli argini e colpì la città come una bomba d’acqua. Arrivammo il giorno dopo in elicottero con il presidente Renzi. Senigallia era una città nel fango, devastata, in ginocchio. Incontrammo i cittadini che avevano perso tutto, il sindaco Maurizio Mangialardi e i consiglieri comunali. Tornammo a Palazzo Chigi e, coni tecnici della Struttura di missione Italia Sicura, inserimmo tra le priorità la grande opera, affidata alla Regione Marche guidata da Luca Ceriscioli che nel frattempo aveva recuperato i faldoni del 1982. Decidemmo insieme ai tecnici regionali di farla ancora più grande, aumentando la capacità di accumulo di acque di piena e quindi le casse di espansione da una diventarono sei lungo il corso del fiume. Definimmo uno stanziamento di 45,2 milioni più altri 500mila euro per il reticolo idraulico, inserito nel piano finanziario di Italia Sicura.

Tutto era pronto, ci siamo, si parte. Anzi, no. Cambio di governo, e con il Conte I addio a Italia Sicura e anche alle casse di espansione per la sicurezza di Senigallia. Da Roma nessuno si occupò di tagliare tempi della burocrazia, accelerare le procedure, dare una mano e stare col fiato sul collo di chi doveva procedere con progetto, gara, espropri, cantiere. Il Misa passò dalla Regione al Consorzio di bonifica. Risultato, solo nell’aprile 2022 recintarono un’area di cantiere per un primo intervento da due milioni di euro a Bettolelle. Quarantuno anni per affiggere il cartello dell’opera sulla recinzione. Poi se lo portò via la piena di settembre.

La cronaca di queste terribili ore indica ancora una volta l’urgenza di svolte radicali. È in ballo la sicurezza dei nostri fragili territori con una seria manutenzione, il “rammendo” per dirla con Renzo Piano, una pianificazione di opere e interventi urgenti per affrontare la più grande opera pubblica soprattutto per proteggere gli 8,1 milioni di italiani che vivono oggi esposti ai rischi di frane e alluvioni. È anche l’ora di avviare il mitologico “Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici” incredibilmente fermo agli anni del Governo Renzi, 2017. Non va perso più neanche un minuto, lo dobbiamo alle vittime, a quei 6mila morti nelle oltre 5.400 alluvioni e 11mila frane degli ultimi 80 anni, con migliaia di feriti e milioni di sfollati. Per riparare i soli danni lo Stato ha speso in media oltre quattro miliardi all’anno dal dopoguerra, quasi raddoppiati negli ultimi 20 anni. E appena 300 milioni all’anno per la prevenzione in un Paese tra gli avamposti mondiali della rischiosità.

Erasmo D’Angelis

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