Il putiferio sollevato dalla vicenda Almasri ha messo in scena, agli occhi sbalorditi delle persone consapevoli, l’incredibile e desolante spettacolo di due poteri – quello politico e quello giudiziario – che pretendono di esercitare le rispettive prerogative senza tuttavia assumersene con pienezza la responsabilità.
Il Governo – inutile girarci intorno, per rispetto della intelligenza di ciascuno di noi – ha adottato una precisa scelta politica, cioè quella di non dare seguito al mandato di arresto della Corte Penale Internazionale. Le scarne parole che infine la Presidente Meloni ha fatto “filtrare” in queste ore («Ho fatto solo il mio dovere, io difendo l’interesse nazionale», titola il CorSera) suggellano questa evidenza.

Giusto o sbagliato che sia, encomiabile o scellerato che sia, è l’esercizio di una prerogativa. Ma lo fa – ecco il punto – senza dichiararlo formalmente e nelle sedi proprie, dunque senza volersene assumere la esplicita e dettagliata responsabilità. Da qui le incredibili contorsioni argomentative e le versioni cangianti del Ministro Piantedosi, i cavilli ed il “latinorum” (copyright by Renzi) del Ministro Nordio. In sintesi: la pretesa (e la conseguente invocazione di insindacabilità giudiziaria) di esercizio di una prerogativa costituzionale, senza però la esplicita assunzione della conseguente responsabilità davanti al Parlamento ed al Paese.

La denuncia di un privato cittadino e mezzo Governo indagato

Allo stesso modo si è comportato il potere giudiziario. La Procura della Repubblica di Roma riceve una mezza paginetta con la quale un privato cittadino, senza aggiungere l’ombra di una circostanza nuova rispetto a ciò che è sotto gli occhi del Procuratore e dell’intero Paese da un paio di giorni, esprime la propria personale opinione circa la rilevanza penale di quei fatti notori. Tanto basta al Procuratore per la immediata iscrizione di mezzo Governo (Presidente del Consiglio, ministri dell’Interno e della Giustizia, Sottosegretario alla Presidenza) nel registro degli indagati per favoreggiamento, peculato ed omissioni di atti di ufficio, e contestuale trasmissione al Tribunale dei Ministri. Una scelta della quale l’Ufficio si assume la responsabilità? Nossignore, un “atto dovuto”, art. 335 di qua, legge costituzionale di là, “non potevamo fare altro”.

Su questo numero di PQM potrete leggere – tra l’altro – il punto di vista tecnico di due magistrati e di un docente di procedura penale, e ad essi vi rinvio senza ulteriormente attardarmi. Ma questa invocazione di un automatismo cogente cos’altro è se non – in modo speculare a quanto fatto dal Governo – l’esercizio di una prerogativa senza volerlo riconoscere? Basterà qui osservare che, norme alla mano, il Procuratore della Repubblica poteva attendere fino a 15 (quindici!) giorni prima di procedere, sapendo per di più che l’indomani i “denunciati” erano attesi in Parlamento per dare spiegazioni di una scelta, o comunque per fornire dettagli circostanziali su quanto accaduto, certamente idonei a meglio delineare o escludere – anche solo astrattamente – le condotte ipotizzate dal cittadino denunziante.

La denuncia e la presa in giro

Aggiungo che, come per tutte le denunzie che quotidianamente pervengono in Procura, le relative iscrizioni possono confluire in almeno tre differenti registri (noti, ignoti, notizia non costituente reato), e se qualcuno osa dire che la sola indicazione del nome delle persone denunziate nell’esposto imponga l’iscrizione nel registro “noti”, vuol dire che non vogliamo discutere ma prenderci in giro, facendo finta che la realtà quotidiana non sia quella che in concreto va in scena nelle Procure di tutta Italia.
Insomma, margini di discrezionalità ampi, che anche qui sono stati esercitati con pienezza, senza però volerlo ammettere. Con una differenza cruciale, però: la politica ne risponde al Paese, il potere giudiziario a nessuno. E qui siamo davvero al cuore del problema. Buona lettura!

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Avvocato