Certo, la via comoda c’è. È una rendita di posizione fruttuosa, garantita dagli errori degli altri. Carlo Calenda e Matteo Renzi, con il suicidio delle europee 2024, hanno dilapidato un robusto patrimonio di interesse degli elettori. Forza Italia può quindi prosperare, limitandosi a fare da riferimento per gli italiani che non si fidano del tutto di Fratelli d’Italia e sentono il bisogno di contenere Matteo Salvini.

I ministri forzisti del governo Meloni si muovono con apprezzabili risultati in termini di consenso e di immagine. L’insediamento di FI sul territorio (specie nel Mezzogiorno), che si esprime nella guida di diverse Regioni, fa il resto. A Marina, la figlia di Berlusconi con più smalto politico, ma anche a Piersilvio, il compito di lanciare qualche sonda verso sinistra, cui segue regolarmente una timida apertura di Tajani a temi “eretici”. A Gianni Letta, infine, il ruolo insostituibile di perno delle relazioni con le istituzioni e i vari mondi vicini al partito o interessati alle sue evoluzioni.

Tutto a posto così? Non è mica detto. Le fotografie del presente non sempre garantiscono il futuro. Specie quando la disaffezione dalla politica è tale che le urne conquistano ormai solo la metà degli aventi diritto. Ciò che appare solido oggi può essere spazzato via in un baleno dall’iniziativa di qualcuno che riesce ad aggiornare l’offerta politica. Ciò che è avvenuto negli ultimi 10 anni con Renzi, Salvini e Grillo dovrebbe averlo insegnato.

Tajani e i big di Forza Italia potrebbero chiedersi: Silvio Berlusconi si accontenterebbe di questa sorta di reddito di cittadinanza della politica centrista? Un pizzico di storia recente aiuta. Dopo la scomparsa del Cavaliere, estate 2023, lo spazio politico che era stato suo sembrava occupato dal dilagare del partito di Meloni, mentre la Lega si teneva stretti i toni identitari e sovranisti. Poi accadde il patatrac dell’area riformista, unito ai paradossi della collocazione europea dei due partner di governo: i patrioti di estrema destra per il Carroccio, i conservatori per il partito di Giorgia. Unico aggancio all’europeismo duro e puro restava la Forza Italia legata al Ppe. Ma anche qui le cose sono rapidamente cambiate. Con grande abilità anche tattica, la presidente del Consiglio ha usato la carta Raffaele Fitto – uomo di solidissimo dna euroatlantico – per agganciare la maggioranza di von der Leyen senza fare alcun salto della quaglia.

Ma può aiutare anche di più la storia non recente. Se Forza Italia prova a interrogare il suo migliore passato, troverà alcune risposte molto interessanti. Berlusconi non è mai stato un conservatore. O comunque non ha mai ritenuto conveniente legare il suo profilo politico alla destra. Si è presentato come protagonista del rilancio del pentapartito, cioè dell’incontro fra cattolici, laici e socialisti. Un sodalizio che aprì anche ai radicali. Veniva da una chiara contiguità politica con Craxi e il Psi, e nel suo nuovo partito trovarono casa in pochi anni fior di liberal-riformisti come Colletti, Frattini, Tremonti, Taradash, Martino, Pera, Adornato, Ferrara, Cicchitto, Guzzanti, Brunetta, Sacconi, Stefania Craxi.

Da fine anni ’90 in poi, Berlusconi rese esplicita la sua ammirazione per Tony Blair: “È un leader di grande visione e determinazione che ha saputo innovare profondamente il suo paese e la sinistra europea, avvicinandola a posizioni pragmatiche e moderne”. E sempre Berlusconi fu il vero partner della parabola di Matteo Renzi. Non fece mistero di ammirarne il coraggio riformista delle origini, gli offrì un’alleanza strategica, benedetta da Gianni Letta e sfociata nel famoso “patto del Nazareno”. Non è azzardato dire che il declino di Renzi inizi con l’affossamento di quel patto politico. Dieci anni fa esatti, agli inizi del 2015.

Forza Italia riformista è quindi un’opzione reale e che attinge alle intuizioni di fondo di Berlusconi. Guadare il fiume verso una nuova identità politica non vuol dire far cadere il governo, cioè il ramo su cui si è seduti, ma certamente incrinare il finto bipolarismo italiano aprendo nuovi scenari anche inediti. Quando Berlusconi pensò di unire l’eredità politica del liberalismo economico al pragmatismo del socialismo craxiano, risolse il problema degli anni ’90.

Dopo 30 anni, di cui gli ultimi 15 imbevuti di populismo spinto, la situazione non è migliorata. Si è anzi avvitata su declamazioni orfane delle riforme, al punto da tenere fuori dal gioco elettorale un italiano su due. Occorre un nuovo contratto politico, un nuovo patto di diritti e doveri civili e sociali che cancelli l’apartheid anche generazionale su cui l’Italia si sta fossilizzando sempre più. Occorre pensare in grande, e magari anche pensare che questo paese non hai mai fatto passi avanti nelle gabbie del “di qua o di là”. Ha conosciuto il progresso (vero) sempre e solo in quell’area complessa ma vitale che sta al confine tra il centro e la sinistra.