Gad Lerner ha scritto su Il Fatto quotidiano un articolo vergognoso sul piano umano, scorretto e disinformato (ciò è grave per un giornalista d’antan) su quella professionale. Il titolo (anche se non è opera diretta di Lerner) ne riassume con efficacia e capacità di sintesi il contenuto: «Bentivogli da sindacalista a pasdaran di Confindustria». In sostanza, a seguire il testo dell’articolo sembrerebbe che l’ex segretario generale della Fim-Cisl non si accontenterebbe dello spazio che gli stanno dando alcuni quotidiani (e qui Lerner coglie l’occasione per prendersela col suo ex editore), ma sarebbe alla ricerca di qualche incarico, magari solo “tecnico”. Per questo motivo Bentivogli starebbe cercando di guadagnarsi le simpatie di Confindustria, avendo osato criticare il Decreto Dignità «varato per disincentivare la proliferazione dei contratti a termine ovvero la piaga tutta italiana del precariato». Evidentemente per Lerner è trascurabile che su quel decreto vi sia stato il voto contrario del Pd e veri e propri cori di preoccupazioni per i suoi effetti sull’occupazione. Allo stesso modo il grande commentatore non si è preso il disturbo di consultare le statistiche per verificare che la quota di lavoro a tempo determinato in Italia è assolutamente in linea con quella dei maggiori Paesi europei. E non si è chiesto perché il primo a sollevare il problema di una sospensione delle norme del decreto giallo-verde sia stato proprio Vittorio Colao nel documento redatto dalla task force nominata dal governo.
Tanto che persino hanno condiviso, senza dire beo, le modifiche, per ora temporanee, alla trappola delle condizionalità necessarie – secondo il decreto Dignità – per prorogare la durata del contratto a tempo determinato. Una prassi che, in camuffa, i sindacati gestivano anche prima della crisi con accordi in deroga alla legge, perché l’applicazione del decreto Di Maio produceva un nuovo dualismo nel mercato del lavoro. Alla scadenza del primo anno del contratto a termine (in maggioranza queste tipologie contrattuali hanno una durata assai più breve) i datori trasformavano alcuni contratti a tempo indeterminato, mentre assumevano altri lavoratori a termine in sostituzione di quelli il cui rinnovo o proroga sarebbe finito sotto le Forche Caudine della rigida condizionalità prevista. Ma l’aspetto più sgradevole dell’articolo è l’attacco personale a Bentivogli. Lerner non argomenta perché a suo avviso Bentivogli sbaglia nel chiedere l’abolizione del decreto Dignità. Sostanzialmente lo accusa di “vendersi ai padroni” che è il peggiore insulto per un sindacalista.
Di tradire i lavoratori in nome del “tengo famiglia”. Ma l’atto decisamente vile è quello di contrapporre Bentivogli a Pierre Carniti, il leader maggiormente caro a Marco (suo padre Franco era, a quei tempi, un componente della segreteria nazionale della Fim). Anche Carniti, da sindacalista, non esitò a condurre in prima persona la battaglia contro gli effetti perversi della “scala mobile” sul versante dell’inflazione (non ricordo che si fosse schierato Lerner in quell’occasione e se anche allora avesse espresso dei giudizi positivi – come ha fatto giustamente ora – nei confronti del grande Carniti). Mi rincresce, ma attaccare strumentalmente la persona, come fa Lerner, per combattere le sue idee è una pratica estranea ad un civile confronto democratico; un virus introdotto nel dibattito dal peggiore populismo. Ci sono poi nell’articolo dei gravi profili di disinformazione. Bastava che Lerner smanettasse un po’ su internet, per trovare – anche su video – un sacco di dichiarazioni critiche di Bentivogli sul Decreto Dignità, quando venne approvato nel 2018 e il nostro era ancora al vertice dei metalmeccanici della Cisl. Infine, proprio in questi giorni i dati sul marcato del lavoro (resi pubblici dall’Istat, dall’Inps e dalle altre Agenzie) rivelano gli effetti disastrosi del decretao meravigliao, che ha difeso la dignità dei giovani facendoli accomodare a domicilio.
Nel primo semestre dell’anno a pesare sulla riduzione dell’occupazione, ha concorso in misura maggiore la contrazione delle nuove attivazioni, soprattutto di breve periodo, cui si somma – ecco la considerazione cruciale – la possibile mancata proroga o rinnovo dei contratti a tempo determinato in scadenza nel periodo. Se, infatti, fino alla seconda decade di febbraio, l’andamento delle posizioni lavorative a tempo indeterminato e determinato era analogo, a partire dai primi di marzo la forbice tra le due tipologie contrattuali si è ampliata progressivamente a sfavore delle seconde. Inoltre, a partire dalla fine marzo, si riscontra anche la progressiva diminuzione del numero di cessazioni, dovuta principalmente ai rapporti di lavoro di breve durata non attivati nel precedente periodo oltreché al blocco dei licenziamenti, previsto inizialmente per 60 giorni e portato poi a cinque mesi grazie alla staffetta dei decreti prima citati.
Nel complesso – ecco la drammatica conclusione – al 30 giugno 2020 rispetto all’analogo periodo dell’anno precedente, il saldo di 578 mila posizioni in meno è dovuto a una diminuzione di 1 milione 567 mila attivazioni di rapporto di lavoro dipendente (-362 mila a tempo indeterminato e -1 milione 205 mila a termine) e un calo di 988 mila cessazioni (-207 mila a tempo indeterminato e -781 mila a termine). È noto che l’occupazione a termine riguarda i settori più deboli dell’occupazione o coloro che accedono al mercato del lavoro come i giovani. I dati in questo caso sono implacabili: il blocco dei licenziamenti è stato scambiato con la diminuzione di 1,2 milioni di contratti a termine. Ma anche in altre tipologie, più o meno precarie, si vedono gli effetti della crisi.
Dopo quasi sei anni di continua crescita e il calo nel 2019, nel secondo trimestre 2020 il numero dei lavoratori in somministrazione subisce una ulteriore e più accentuata riduzione tendenziale scendendo a 313 mila unità (-19,4%). Anche il numero dei lavoratori a chiamata o intermittenti presenta un brusco calo (-59,6% rispetto all’analogo trimestre del 2019), dopo tredici trimestri di crescita ininterrotta e il calo nel primo trimestre 2020, attestandosi a 111 mila unità.
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