Vuoi misurare quanto è contaminata di razzismo la temperie civile di un ambiente sociale comunemente ritenuto immune, e che tale si ritiene? Misura la scompostezza, l’irritazione, il dispetto con cui proprio nel medesimo ambiente si nega l’esistenza di quella contaminazione, e hai la risposta: lì non solo il virus del pregiudizio razzista si è impiantato, ma sono indebolite le capacità di contenerne la portata infettiva proprio perché non se ne riconosce la presenza.

Non mancano le prove di questa realtà evidentissima: manca la maturità sufficiente per tenerne conto, e per evitare che si moltiplichino sulla puntuale abitudine di trascurarne l’effettività. Vogliamo procedere a campione? Abbiamo deciso di aprire uno strepitoso dibattito sulle malversazioni nelle strutture di accoglienza dei migranti nella casuale concomitanza di uno scandalo che, ancora casualmente, coinvolgeva la moglie nera e la suocera nera di un parlamentare nero, un dibattito casualmente richiuso nell’esaurimento della materia da prima pagina: che non era la situazione di degrado di quei centri di sostanziale prigionia (una situazione che non ha mai scandalizzato nessuno anche se era conosciuta da tutti), ma la marca delle borsette di quella signora e il livello di verosimiglianza delle lacrime del talentuoso ivoriano preso in castagna dall’impavido giornalismo d’inchiesta. Ma il razzismo non c’entrava, perché “gli italiani non sono razzisti”.

Ne abbiamo aperto un altro, a stretto giro, sull’emergenza dei borseggi: ed è nuovamente un caso, una inopinata coincidenza priva di qualsiasi significato, il fatto che l’oggetto del civile dibattito diventi la cerchia delle “borseggiatrici rom”, la bella rubrica anticipata dagli altoparlanti della metropolitana che raccomandavano ai viaggiatori di fare attenzione agli zingari. Ma nemmeno in questo caso c’entra nulla il razzismo, perché “l’Italia non è un Paese razzista”. Ma il problema non è se “gli” italiani, cioè tutti, siano razzisti (ed evidentemente non è così), né se l’Italia sia nel suo complesso razzista (non è così, ovviamente): il problema è se qui, tra noi, insorgano o no evidenti fenomeni di razzismo, e se siamo o no capaci di identificarli e di vergognarcene. Non ne siamo capaci. E, non essendone capaci, ne favoriamo la proliferazione.

Perché il profilo razzista di quei reportage, di quell’editorialismo a petto in fuori, di quell’indugiare sulle esigenze di protezione della gente perbene, la gente onesta che non tira la fine del mese ed era oltraggiata ieri dal clan del deputato che non rinnegava la moglie e non rinunciava allo stipendio, come è offesa oggi dall’impunità di queste nomadi che usano il ventre gravido per farla franca, quel profilo razzista, dicevo, era evidente allora in quel caso ed è evidente oggi in quest’altro: due casi che non avrebbero goduto di simili attenzioni se a connotarli non fosse stata la diversità di pelle, di etnia e di classe per cui si segnalavano i protagonisti.

Discutere di “borseggiatrici rom” e non avvedersi della pericolosa stortura annidata in quella dicitura, anzi rivoltarsi come serpenti calpestati se qualcuno la segnala, significa appunto non comprendere che il razzismo si è fatto intimo proprio in chi ritiene di esserne immune. E se è necessaria la riprova definitiva di questo andazzo, eccola: l’uso della statistica, naturalmente – per carità! – privo di qualsiasi intendimento discriminatorio, rivolto a registrare l’inoppugnabile circostanza che il rom ruba. Come l’ebreo fa usura.