Era Salvini. Chi ne amava lo straordinario «animale politico» (cit.) deve sentirsi molto risentito, o magari soltanto notevolmente deluso. I titolari, anzi, gli affittuari dei residence populisti contavano molto sul talento ritenuto lungamente indubitabile di Matteo Salvini, lo consideravano tra i migliori concessionari naturali, autodidatta capace però di svelarsi campione, la fascia di “Capitano” al braccio per conclamate capacità, un centravanti superdotato, uomo del consenso.

Pensavano addirittura che potesse raggiungere le vette del collega Orban già al governo, molto più della stentata, sebbene vittoriosa alle urne, Marine Le Pen. Nel nostro caso, da un chiringuito di Milano Marittima magari anche di Gioiosa Marea e Ionica. Erano assolutamente convinti che il prescelto, Salvini, avesse talento perfino magistrale da ricostruttore, pensa! Pensavano: ha rilevato un partito boccheggiante, la Lega Nord, che si caratterizza per la sua cifra localistica, da sabba nibelungico-brianzolo, facendone un progetto concreto del consenso globale, pure quelli cui un tempo lui orinava in testa, i “colerosi” meridionali, lo applaudono, un Maradona della politica, tutti a implorargli selfie, cose che accadevano una volta soprattutto ai divi Mediaset.

Gli argomenti? Semplicissimi, gli bastava ampliare l’eco degli umori profondi, duodenali della piazza, della “gente”, del “popolo”, non quello blandito dai “comunisti con il Rolex”, no, quello vero, gagliardo, ruspante, il forcone pronto nello stanzino degli attrezzi accanto al Folletto. Incolpare i migranti d’ogni responsabilità, indicarli come i ladri del futuro dei residenti storici, “prima gli italiani” era scritto sul suo cappellino tattico, poi le tasse, troppe, troppe… Si era inventato addirittura un sentire cattolico devozionale e miracolistico personale, un sanfedismo in polo e bermuda, una sempre sua personale, ideale Collina delle Croci, anzi, dei rosari, raccolti uno per volta – «… un rosario un voto, un rosario un voto…» – simile a quella visitata dal papa polacco in Lituania, ma anche, volendo, La collina dei ciliegi, almeno quando il karaoke di Radio Rock gli metteva il microfono davanti e lui, simpatico, si buttava sulla base a cantare come fosse al Villaggio Tamurè: «E se davvero tu vuoi vivere una vita luminosa e più fragrante cancella col coraggio quella supplica dagli occhi… Planando sopra boschi di braccia tese».

Queste ultime, volendo, anche protese nel saluto che sappiamo. Lui al centro, tra medagliette votive ed ellepì di Lucio Battisti, un portento. Perfino i dettagli sembravano perfetti nella percezione del suo popolo, nel senso che il “radical chic”, lo stronzone supponente, alle spalle, sugli scaffali della propria libreria bianca di designer durante il collegamento con un talk, mostra i dorsi dei libri Einaudi e Adelphi e magari anche un vaso di Ettore Sottsass, a queste finezze Salvini contrappone il pelouche da bancarella che dice “Abbracciami!”, lo stesso che, volendo, si applica con le ventose sul lunotto dell’auto, versione seriale di ciò che un tempo era il cane che dondolava la testa, o perfino la replica del barattolo di Merda d’artista di Piero Manzoni, sicuramente un regalo- «… Vedi, Matteo, e questa sarebbe arte? Mah!» – così tutti lì a diventare semiologi, a imbastire considerazioni del tipo: le mensole Ikea di Zingaretti sono vuote, le mensole Ikea di Salvini sono piene di significanti. Di oggetti decisamente forti alla vista, gli oggetti «dell’Italia che sul serio esiste, maggioritaria!».

Tutto perfetto, anche i numeri gli davano ragione. Con molti a pensare implicitamente: irrilevante, se ci sia o ci faccia, certo è che colpisce il bersaglio, va a punteggio, come nel gioco delle bocce si avvicina sempre al pallino, e gli altri invece a corrergli dietro. Anche la Meloni che, inizialmente, sembrava arrancare, impossibilitata a fare altrettanto bene come l’alleato nell’opposizione, perché se lui dice «ruspa», tu, cercando di non apparire troppo fascista, cosa puoi dire di più? Salvo poi riprendersi, sia pure dopo una cosmesi moderata rispetto al clerico-postfascismo.

Tutti a dire certo che a suo modo è davvero bravo, bravo anche quando va in giro con la maglia del leggendario Puskás, storica stella della Nazionale magiara di calcio, per non dire dei giubbini da piantone di questura. Tutti a un certo punto a pensare di imparare da lui, da Matteo che tacita ogni possibile dissenso accentrando su di sé l’intera propaganda della Lega risorta dall’ictus di Bossi, davanti all’uomo di mondo Giorgetti, lì accanto a pensare un «mah, vediamo dove vuole arrivare!», come la barzelletta di Totò con Pasquale, almeno a giudicare dalle rilevazioni di gradimento.  Poi, si sa come vanno le cose, arriva un’epidemia globale, e proprio Matteo diventa Pasquale: arrivano i primi schiaffi. Inutile adesso dire che la politica è più complessa dell’accusare le Ong, dare della “zecca” a una ragazza con i dread. Resta il fatto che improvvisamente gli sono venuti meno degli spauracchi perfetti: i migranti, i “professoroni”, i “radical chic”.

Dove è finita “La Bestia” dei social del suo attendente mediatico Luca Morisi, quello che gli aveva anche messo in mano, come a una convention di collezionisti di militaria, il fucile Carcano? Mancava soltanto il selfie con il panzerfaust perché facesse la parte inversa dell’Allende sovranista assediato nel palazzo dell’Europa ladrona. Irrilevante ormai perfino la sua risposta a chi gli domanda se mai ha pippato coca, con lui che giustamente garantisce non aver mai toccato sostanze. Non c’è bisogno di essere politologi per intuire il declino di Salvini che riuscì a essere uno nessuno e centomila, con sottofondo di Mille giorni di te e di me di Claudio Baglioni; improvvisamente, la pallina della roulette si ferma e, pensa, va a finire sulla casella del Nessuno. Certo, si potrà anche risollevare, potrà anche trovare nuovi temi, “… fateci uscire, non possono tenerci prigionieri!” in questo costretto a contendere la fine del lockdown a Matteo Renzi, messo bene anche quest’altro, carotando nel profondo l’orrore subculturale di tutti noi, attuali proscritti d’Italia, anzi, “sudditi”; ci sarà mai vera sostanza per costruire il villino del sovranismo che vorrebbe innalzare?

Solo un intellettuale di destra dall’abito cardato, sovente ospite dei talk, persiste nell’affermare che la solo destra sognata dalla sinistra non vorrebbe Salvini, perché Matteo è pop, un po’ come Mussolini, cioè «a misura d’uomo, più umano, più vero», come il Pippero di Elio e le Storie Tese, sincero. Magari la politica è un po’ più complessa, e chissà quanto sarebbe riuscito a reggere se, sulla fiducia, gli avessimo dato, chiavi in mano, come un’auto vinta alla lotteria, i “pieni poteri”. Quasi quasi, qualcuno così pensa, ma sì, diamoglieli, magari assistiamo al suo precipizio finale. Prima dell’euro stesso.

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Fulvio Abbate è nato nel 1956 e vive a Roma. Scrittore, tra i suoi romanzi “Zero maggio a Palermo” (1990), “Oggi è un secolo” (1992), “Dopo l’estate” (1995), “Teledurruti” (2002), “Quando è la rivoluzione” (2008), “Intanto anche dicembre è passato” (2013), "La peste nuova" (2020). E ancora, tra l'altro, ha pubblicato, “Il ministro anarchico” (2004), “Sul conformismo di sinistra” (2005), “Roma vista controvento” (2015), “LOve. Discorso generale sull'amore” (2018), "Quando c'era Pasolini" (2022). Nel 2013 ha ricevuto il Premio della satira politica di Forte dei Marmi. Teledurruti è il suo canale su YouTube. Il suo profilo Twitter @fulvioabbate