Le decisioni che contano, nel M5S, vengono da Genova. Quella definitiva, arrivata ieri, è uno spartiacque: il divieto rigoroso e assoluto di ricandidarsi oltre il secondo mandato. Senza eccezione alcuna: fine corsa per la carriera del presidente della Camera, Roberto Fico, per l’ex coordinatore Vito Crimi, per l’ex ministro Danilo Toninelli. Sono 49 i pentastellati – tra chi allignava ancora sui banchi grillini – ad uscire di scena. Su mandato imperativo di Grillo: il “telefono rosso” tra i due Giuseppi, Beppe e Giuseppe, funziona ormai in un’unica direzione. Il Garante diventa il gerente. È lui a dettare l’agenda, le regole e la loro applicazione. Il voto degli iscritti non c’è più. C’è il volere di Grillo, che affonda sul burro dell’indecisione contiana. L’avvocato tentenna? Grillo spadroneggia.

Lo può fare: è tornato ad esercitare le prerogative di chi, dal 2013, è titolare dell’associazione proprietaria del simbolo con le cinque stelle. Anche se non può fare proprio tutto, a partire dalle liste. Che però non può stilare neanche Conte. “Lo statuto prescrive che ci siano le Parlamentarie, che devono essere indette con urgenza. Ma non c’è ancora il nuovo regolamento per presentare le candidature”, dice l’avvocato Lorenzo Borré. “E attenzione: se non si rispettasse questo passaggio, non ci sarebbero liste regolari e valide per il M5S”. I boatos dicono che la bomba dell’uscita di scena di Fico non lascerà indenne l’edificio grillino. Nel clima da rompete le righe del Movimento, prende piede l’invocazione del ritorno di Alessandro Di Battista, magari in tandem con Virginia Raggi. È un boatos che cresce, come quello che vede Pierluigi Bersani sempre più al centro delle telefonate dei deputati pentastellati delusi. Potendo, passerebbero con lui in molti. Ma invano. A meno che proprio il leader di Mdp-Articolo1, che ieri ha formalizzato l’adesione al listone Progressisti e Democratici, come pure il PSI di Enzo Maraio, non si proponga di trascinare tutto il Movimento in una grande operazione cerniera. Ed ecco che l’ipotesi del Fronte popolare si rafforza.

È solo una ipotesi, e non delle più gettonate. Ma c’è chi è pronto a scommettere che alla fine, davanti alle implacabili proiezioni che inchiodano il centrosinistra a numeri da esigua minoranza, la composizione di un fronte unico finirà per prevalere. Ne è convinto, tra gli altri, un frequentatore navigato della politica come Gianfranco Rotondi: “Chi crede che Pd e M5S andranno separati nei collegi? Cento anime belle e un paio di Micromega firmeranno un appello per fermare la destra, Grillo interverrà, Letta spiegherà che a certe alleanze si è costretti, Calenda dirà che è colpa di Letta ma rimarrà a bordo”, profetizza l’ultimo democristiano. La collocazione internazionale dell’Italia, nel momento in cui si indaga sulle influenze russe sui parlamentari, mantengono le strade ben divise. Conte prende atto e alza di un’ottava la voce: “Mai più con il Pd”. Come noto, “l’uomo dei penultimatum”, come lo chiama Grillo, ha dei “Mai” che durano poco. Sia come sia, il tempo delle strategie sta per finire. Ancora pochi giorni e il puzzle delle candidature del fronte progressista alle prossime elezioni inizierà ad avere confini definiti.

Ad oggi, la notizia è che Italia Viva corre da sola. Senza troppe incertezze. “Il tre per cento è già nei sondaggi, si può solo crescere, se si va da soli”, avrebbe detto ieri Matteo Renzi ai suoi. E poi si è chiuso a lavorare nel suo ufficio in Senato, ha stilato una lista che contrappone frontalmente i nomi di Italia Viva agli esponenti del listone Dep. Lui stesso correrà a Firenze, contro Fratoianni. Marattin sarà a Napoli contro Di Maio. Contro Enrico Letta correrà una comunista doc. Un “muro contro muro” che qualcuno avrebbe volentieri evitato ma che le ostilità sedimentate a sinistra hanno cristallizzato. Il 2 agosto, martedì prossimo, i segretari regionali del Pd dovranno consegnare a Enrico Letta le proposte dei territori e da lì lo schema che il segretario dem sta tracciando in questi giorni con alcuni fedelissimi come Marco Meloni e Francesco Boccia potrà essere riempito di contenuti. Intanto Letta prosegue con tutta la ‘war room’ al Nazareno il lavoro sulle liste partendo dal mandato ricevuto in Direzione. Alcuni punti cardinali: rispetto della parità di genere (a capolista uomo corrisponderà capolista donna, sempre), rinnovamento, competenze, occhio di riguardo ai giovani, attenzione ai territori (i sindaci dem consegneranno a Letta tra lunedì e martedì cinque punti da inserire nel programma).

L’obiettivo è la prossima Direzione nazionale, che potrebbe tenersi l’11 agosto, chiamata a dare il suo via libera. La principale questione che Letta sta affrontando in queste ore però è quella degli alleati. Lo schema da applicare è articolato tra i ‘partner’ che avranno spazio nella lista aperta ‘Italia democratica e progressista’ (come Demos o Articolo 1) o chi (come Di Maio o la sinistra di Fratoianni/Bonelli) avrà il proprio simbolo sulla scheda elettorale. Il segretario ha avviato trattative con tutti, o quasi. Proprio da Articolo 1, Demos e Psi sono anche arrivate le adesioni formali al progetto comune. Ma si deve arrivare ai nodi veri: quello legato ad Azione e al suo leader Carlo Calenda, con la giuntura di Più Europa. E poi c’è Italia Viva, che andando da sola scompagina di riflesso le dinamiche dei dem e dei centristi. Che intanto ingrossano le fila. Dopo l’addio a Forza Italia Mara Carfagna e Maria Stella Gelmini hanno scelto Azione: «Berlusconi? Stima intatta», si premurano di dire. Ma: “Siamo state costrette a prendere questa decisione”.

Andranno a integrare la segreteria di Azione, prenotando due collegi sicuri. Che però scarseggiano. Grazie allo schema che i tecnici dem hanno messo a punto con uno studio collegio per collegio, i posti agli alleati (di questo si parla in queste ore) andranno assegnati secondo il loro peso: un paio di eletti sicuri nei listini per socialisti (uno certo per il segretario Enzo Maraio), altrettanto per Demos (Paolo Ciani). Qualcosa in più (5?) per Articolo 1 (certi Speranza e Arturo Scotto). A questi poi potranno aggiungersi i collegi messi a disposizione degli alleati in cui dare battaglia al centrodestra. E Azione? “Chiede l’impossibile”, rivela uno degli sherpa che in queste ore sta faticosamente lavorando all’intesa. I dem si rendono conto delle potenzialità che può avere nelle urne l’ex ministro del Mise. Per esempio, il blindatissimo collegio di Bologna sarebbe pronto per Matteo Richetti. “Ma con Calenda bisogna trovare un’intesa sostenibile, anche nel rispetto agli altri alleati”, sottolineano ancora fonti di centrosinistra. La giornata di ieri ha visto il dibattito infiammarsi ancora per il caso Salvini-Russia: secondo alcuni documenti visionati da La Stampa, a fine maggio il funzionario dell’ambasciata russa Oleg Kostyukov avrebbe chiesto a un emissario di Matteo Salvini se i ministri della Lega fossero intenzionati a lasciare il governo Draghi.

L’attacco dei partiti contro il leader della Lega è duro. «Vogliamo sapere se è stato Putin a far cadere il governo Draghi», affonda Letta. “L’ho più volte chiesto io in Parlamento. Oggi però, chi chiede a Salvini di buttare via tutte le ombre, ha riflettuto su quello che ha fatto il governo Conte quando ha fatto venire in Italia i soldati russi. Forse è più giusto ‘Salvini e Conte devono chiarire’”. “Sulla Russia – aggiunge Renzi – bisogna essere intellettualmente onesti, e dire che Giorgia Meloni non ha avuto incertezze su questi temi”, ha concluso. Mercoledì prossimo alle 10 è in programma un’audizione al Copasir del direttore del Dis, Elisabetta Belloni. Oltre alla situazione della guerra in Ucraina è presumibile che componenti del Comitato chiederanno informazioni sulla vicenda dei rapporti tra Russia e Lega.

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.