Superata la mia diffidenza verso Instagram (ho 42 anni), ho deciso di ascoltare chi mi consigliava di realizzare dei video per veicolare i miei contenuti. E così, martedì scorso, un po’ impacciata, ho acceso la fotocamera del mio smartphone, ho estratto la mia carta identità – che dal 2006 riporta un nome e un genere femminili – e ho registrato un videomessaggio per Matteo Renzi, che, attraverso i senatori di Italia Viva, intende far stralciare l’identità di genere dal testo del disegno di legge Zan.

Gli ho spiegato che l’identità di genere esiste, che può essere maschile o femminile (stando al nostro attuale ordinamento che non prevede altri generi oltre a “uomo” e “donna”) e che lo Stato italiano ha riconosciuto la mia “identità di genere femminile”, ormai 15 anni fa. Ho spiegato che l’ “identità di genere transessuale”, semplicemente, non esiste (checché ne dica un certo femminismo minoritario), e che io, per il nostro Stato, sono una donna “a tutti gli effetti di legge”. Ho poi aggiunto che tutti, incluso lui stesso, hanno un’identità di genere, e che depennare quelle tre parole dal testo significherebbe negare un diritto umano e non garantire adeguata protezione dall’odio transfobico ad almeno 400 mila cittadini italiani. 2 minuti e 35 secondi, in tutto.

Il video ha avuto quasi 93 mila visualizzazioni su Instagram (ad ora) e quasi 17 mila su Facebook, è stato citato da Fedez – che, simpaticamente, mi ha chiamato “ragazza che ha fatto un bellissimo video”, e io lo ringrazio da qui per il sostegno e per avermi svecchiata – nella sua diretta con Marco Cappato e Matteo Civati di mercoledì scorso, e io ora non riesco materialmente a rispondere alle tantissime persone che mi ringraziano e mi scrivono di aver finalmente capito che cos’è l’identità di genere e di che cosa si parla da mesi, praticamente ovunque. Ricordate Esopo, che alla fine delle sue favole, scriveva sempre: o mythos deloi oti, “la favola insegna che”? Che cosa dovrebbe insegnare questa storia? Che quando si tratta un qualsiasi tema o argomento, meglio sarebbe far parlare i diretti interessati. E, magari, chiudere la bocca e ascoltare.

Io e la mia comunità siamo stuf* di sentir parlare persone cisgender (persone non trans) di cose che non conoscono, mentre noi veniamo esclusi da un dibattito pubblico su temi che ci riguardano in prima persona. In Senato sono state organizzate ben 170 audizioni sul disegno di legge Zan, sono stati ascoltati presunti esperti ed esperte – tutti contro la legge, ovviamente, e che peraltro hanno parlato di temi del tutto estranei al testo – ma non una persona transgender è stata audita. Per dirla con le parole di Angelo Schillaci, Professore Associato di Diritto pubblico comparato presso l’Università La Sapienza di Roma, in riferimento al non coinvolgimento nel dibattito sul Ddl Zan delle persone LGBT+ e delle donne, «il conflitto è ancora e sempre tutto lì, si gioca sul crinale del passaggio dall’assenza alla presenza civile». In sostanza, a noi persone transgender, non-binary e gender non-conforming, è impedito di autorappresentare le nostre istanze nel dibattito pubblico, nel confronto mediatico e presso le istituzioni. Non c’è, ovviamente, una legge che ce lo impedisce. Lo spazio di rappresentanza ci è negato da prassi di esclusione che affondano le loro radici culturali in bias cognitivi e pregiudizi, il più delle volte inconsapevoli, ma talmente diffusi da aver costruito una norma, non scritta, di esclusione. Il Ddl Zan, se approvato, servirebbe anche a mettere in discussione tali pregiudizi e bias, a partire dall’educazione e dal mondo della scuola, ed è questo che fa più paura alle destre e a quell’integralismo cattolico che intende fare in modo che lo status quo – culturalmente patriarcale, misogino e omotransfobico – perduri.

Il risultato della narrazione cisgender dell’identità di genere è sotto gli occhi di tutti: nessuno in Italia, salvo gli addetti ai lavori, ha capito che cosa sia esattamente l’identità di genere, e non perché siano mancate anche importanti voci a favore dei nostri diritti – dai giornalisti ai giuristi, dai politici ai personaggi del mondo dello spettacolo -, ma semplicemente perché nessuna persona transgender rappresentativa delle istanze di tutt* ha avuto abbastanza peso, spazio mediatico e politico per portare la nostra voce. Perché non conta soltanto quel che si dice, ma anche chi lo dice.
La persona trans* che parla di identità di genere porta con sé tutta la potenza rivoluzionaria di chi traduce la sua stessa carne, la sua vita, il suo sguardo e l’anima, in parole. Perché non basta essere dalla parte delle minoranze, occorre anche mettere da parte il proprio primadonnismo e dare loro spazio di espressione.

Le persone capiscono subito quando un politico, un giornalista e un personaggio pubblico parlano di persone e situazioni che non conoscono per davvero, e con questo dibattito è stato lapalissiano quanto la narrazione di alleati, che parlano al nostro posto, sia stata inefficace. Nella mia militanza ormai ventennale, ho visto molte persone cambiare idea su transgenerità e identità di genere dopo un confronto vis à vis di appena mezz’ora. Ora ne vedo molte altre cambiare punto di vista – felicemente – in 2 minuti e 35 secondi. È arrivata l’ora di darci la parola.