La proposta di modifica del ddl Zan avanzata da Italia viva abolisce la definizione di identità di genere e la sostituisce con il riferimento alla “transfobia”: un grave errore per diversi motivi. Il primo lo ha indicato bene il costituzionalista Angelo Schillaci: quella espressione serve al giudice nella definizione del soggetto che viene discriminato. Non implica vaghezza, ma precisione nell’individuare l’identità che si vuole tutelare.

«A partire dalla giurisprudenza della Corte europea – spiega Schillaci – per arrivare alla Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne, passando per la giurisprudenza della Corte costituzionale, l’identità di genere fa parte del linguaggio giuridico a tutti i livelli: è un concetto chiaro e preciso, molto più della nozione di transfobia, che sposta l’attenzione sull’aggressore, e non sulla dignità della persona offesa». Il rischio, sottolineano diversi interventi critici, è che la nuova dicitura possa essere bocciata dalla Corte costituzionale. Ma c’è un altro motivo, che a qualsiasi garantista dovrebbe stare a cuore: parlare di identità di genere sposta l’attenzione dall’aspetto penale a quello culturale.

Che cosa è l’identità di genere e perché fa così paura? Proviamo a dipanare questa materia che nei mesi scorsi è stata fonte di fraintendimenti, di false informazioni e di tanta, troppa confusione: la cosiddetta propaganda gender. Il genere è l’insieme delle identità che concorrono a definire un soggetto: classe, sesso, orientamento sessuale, percezione di sé, appartenenza etnica, religiosa… È un costrutto che a partire dalla sua complessità rompe lo schema binario che definisce le identità dentro le opposizioni uomo/donna, etero/omo. Secondo questa concezione, l’identità di genere non riguarda solo alcune persone, ma tutti noi nel nostro divenire e strutturarci. È una visione libertaria, che ancora prima di definire il soggetto che va tutelato, riconosce pari dignità a tutti, a prescindere da quello che è il loro orientamento sessuale. Per questo l’identità di genere non deve saltare, non solo perché tutela tutti a prescindere dalle definizioni schematiche, ma perché consente di mettere in discussione stereotipi e ruoli che finora sono stati considerati “naturali”. Le donne sono così, gli uomini sono cosà, gli etero devono fare così, gay, lesbiche e trans invece no.

La ricaduta che avrebbe la legge Zan qualora non venisse depurata da questa definizione sarebbe enorme perché permetterebbe attraverso il confronto, il linguaggio e la scuola di costruire una società diversa: aperta, rispettosa di tutte le identità, libera e senza schemi. Sarebbe questo uno strumento enorme per sconfiggere ogni forma di discriminazione, scommettendo sull’educazione, sulla cultura invece che sul carcere. Nella proposta di Italia viva resterebbe in piedi solo l’aspetto punitivo, che senza la carta di una scommessa anche culturale rischia di non produrre grandi cambiamenti.

Nei giorni scorsi su queste pagine Giuliano Cazzola paragonava l’identità di genere all’ideologia terrapiattista. Ci permettiamo di dissentire, non solo non sono paragonabili, ma sono esattamente l’opposto. L’identità di genere nasce da una concezione non “essenzialista” della soggettività, cioè una visione in cui la biologia viene vista attraverso la storia, la cultura, l’immaginario, il desiderio. Al contrario una visione della soggettività fondata solo sulla biologia va a braccetto con teorie spesso discriminanti e razziste. Per poter parlare di identità di genere bisogna aver a che fare con il dibattito filosofico mondiale, con Freud, Lacan, Derrida e il femminismo degli anni Settanta. Per definirsi terrapiattisti, basta invocare quella presunta natura che oggi si vuole considerare come elemento totalizzante nella definizione delle identità. È per questo che fa paura: perché smonta definitivamente la norma attraverso cui nei secoli si sono formate convinzioni che oggi è invece arrivato il momento di mettere in discussione. Si chiama libertà di essere chi si vuole. Scusate se è poco.

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