Il caso
I ritardi su Regeni: siamo un Paese poco attento ai diritti

Le inerzie e le timidezze italiane nel reclamare verità sulla morte di Giulio Regeni hanno a che fare abbastanza poco con la delicatezza dei rapporti tra il nostro Paese e l’Egitto, con i soldi, con i commerci, con il petrolio e insomma con gli affari che secondo la rappresentazione comune raccomanderebbero al nostro potere di soprassedere. Non che quel viluppo di interessi manchi di avere un ruolo e di agire con una sua efficacia nel mantenere sotto al tappeto dell’ufficialità egiziana la sporcizia di quel che è successo: ma ciò che ha inibito all’Italia di assumere con la dovuta fermezza e tempestività un profilo più netto è la costituzione materiale del nostro sistema, un’organizzazione sociale presidiata da un’amministrazione che ha le carte molto poco in regola con la tutela dei diritti di chi è vittima dei soprusi di Stato.
C’è voluto un decennio perché fosse riconosciuto un margine di verità nel caso di un nostro connazionale ammazzato non in una famigerata prigione mediorientale, ma qui, per mano di funzionari pubblici che per tutto quel tempo hanno goduto di una guarentigia omertosa mentre una squadra di parlamentari e ministri teneva bordone raccontando che era morto di devianza e di droga. E sono innumeri i casi, tutti molto italiani, di persone abbandonate all’inferno del carcere senza che l’autorità pubblica senta l’esigenza di ripristinare la propria immagine restituendo una possibilità di vita a chi, senza nessuna colpa, è stato sacrificato in quel modo.
Per non dire di quando non si discute più soltanto del carcere che detiene ingiustamente, ma di quello che uccide: e dell’ultima strage – tredici morti giusto qualche mese fa – non s’è saputo praticamente nulla dopo lo strepito del momento, peraltro con uomini del governo che ancora una volta ritenevano di doversi dichiarare “dalla parte delle forze dell’ordine”, come se la divisa fosse una scriminante anziché il segno gravissimo della legalità negata da chi dovrebbe tutelarla.
Non sorprende dunque che un Paese come questo, con un concezione e soprattutto una pratica così bassa dello Stato di diritto, fatichi a reclamare la difesa dei diritti calpestati all’estero. E se la propensione non cambia nemmeno quando a essere vittima è un connazionale, ebbene è esattamente per quel motivo: perché cose simili succedono anche qui, con una giustizia latitante e un’informazione addormentata senza che c’entrino nulla i soldi e le commesse internazionali.
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