Il caso e l'ipocrisia
Il Paese che ha arrestato Tortora può ottenere la verità su Regeni?

Fra meno di un mese saranno trascorsi 5 anni dalle torture e dall’assassinio di Giulio Regeni, ricercatore italiano, giovanissimo, ucciso in Egitto. E fra poco più di un mese sarà un anno che l’attivista Patrick Zaki è imprigionato in Egitto. Ferite dolorose nel cuore di molte persone, che sinceramente piangono il primo e vorrebbero non dover piangere il secondo. Sentimenti nobili, sinceri, e del resto: bisognerebbe appartenere a una razza senza anima per non sentirsi aprire le pieghe del cuore ogni volta che si ascolta il nome di Giulio, si vede una sua immagine sorridente, si ode l’ennesimo appello, pacato, fermo, carico d’amore dei suoi genitori. Non si può, se si è gente comune, non chiedere verità per Giulio e libertà per Patrick.
Verità e libertà che però si intingono nell’amaro dell’ipocrisia quando da bocche normali passano su lingue potenti, su coscienze edotte. E molti, molti in Italia dovrebbero almeno tacere, perché infinite sono le verità negate sul dolore di migliaia di famiglie a cui sono mancati figli, madri, padri, parenti, amici. L’Italia è la patria delle stragi impunite, di moltitudini di morti irrisolte, perpetrate in nome di chissà quale ottusa e cinica ragion di stato. E c’è ipocrisia nella nostra sorpresa rispetto alla mancanza di risposte dal Governo egiziano. Ipocrisia in noi che risposte pesanti non le abbiamo mai avute dal Governo italiano e viviamo come uno scandalo il silenzio di Al-Sisi, quando lo scandalo vero è il silenzio della nostra politica, costante, impudente, dal passato al presente.
Noi vogliamo verità per Regeni e libertà per Zaki, ma siamo il Paese che ci mette anni per dire la verità su Cucchi, ed è una verità una tantum, e mica è verità quella su Pinelli, siamo il Paese che ha imprigionato Tortora, che ha assolto Mannino dopo quasi trent’anni, che ti fa rosolare in galera un numero indeterminato di anni prima di darti un esito. Un Paese che per alcune categorie commina il carcere fino alla morte, mette l’umanità dietro a un vetro, decide cosa possa leggere un prigioniero, cosa possa mangiare quando può dormire o stare sveglio, ne spia le frasi scritte e ne ascolta le parole, ne guarda i gesti ogni secondo di una giornata. Siamo il paese del 41bis, la morte in una vita da accanimento terapeutico. Il posto in cui i malati stanno e muoiono in carcere, e ci restano anche se sono vecchi, se non riescono a badare a se stessi, chiusi in trappola col covid19.
Ci adombriamo per la legion d’onore data ad Al-Sisi, ma fingiamo di non conoscere la ragione del perché il terrorismo islamico ci schiva: semina morte in tutti i paesi occidentali e salta l’Italia. E anche gli altri Paesi si potrebbero adombrare. E forse più che le medaglie francesi, gli occidentali, tutti, dovrebbero rinunciare agli orpelli di un benessere che sorge e si mantiene su un mondo che è stato costruito male, con una ingiustizia che miete vittime normalmente nella sua parte fragile. I nostri morti sono morti uguali a quelle infinite del lato sfortunato, e tutte dovrebbero essere morti nostre e di tutte dovremmo chiedere verità. E per tutti dovremmo chiedere libertà. Giulio è un dolore immenso, e se in maggioranza fossimo come è stato lui in vita, non avremmo più due mondi, ma uno soltanto, e migliore. E intano che quell’unità ci colga, gli altri li lasciamo annegare, li lasciamo a marcire in galera. Restiamo immersi nella nostra ipocrisia e non ce la facciamo a rinunciare a nulla di quello che continua a rendere diseguale il mondo. Stiamo qui, trepidanti, nell’attesa del Natale che, forse, ci permetteranno di trascorrerlo con le nostre famiglie.
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