Le forme per combattere il covid
I robot compiono 100 anni: storia del cambiamento dell’Intelligenza Artificiale

Eliminare la povertà, liberare l’uomo dalla schiavitù del lavoro. I robot inventati dallo scrittore ceco Karel Čapek vengono prodotti in massa per alleviare pesi e fatiche umane. È il 1920 quando Čapek inventa questa parola, robot, nel dramma in quattro atti intitolato R.U.R, andato in scena per la prima volta nel 1921. Il termine robot comincia a circolare in Europa poco dopo, quando il sipario si apre su un palco di Londra, nel 1923. Sarà pure che in quegli anni gli scrittori britannici si chiamano H.G. Wells, Aldous L. Huxley, George Orwell.
Il termine robot viene da “robota”, ossia “corvée”, o sfacchinata. A suggerirlo a Karel Čapek è il fratello Joseph, pittore e scrittore. Dopo il dramma R.U.R, automi simili ai robot hanno invaso l’immaginario del Novecento fino ai giorni nostri, attraverso una serie di incarnazioni capaci di assumere speranze e paure della società: dai robot di Asimov e dei tantissimi scrittori di fantascienza degli anni Cinquanta e Sessanta fino agli androidi immaginati da Philip K. Dick – e resi ancora più celebri dal film Blade Runner –, dai cyborg agli avatar che hanno riempito mondi virtuali come Second Life (con romanzi e versioni cinematografiche).
Ma prima dei robot? I robot hanno tanti avi, innumerevoli tipologie di automi meccanici hanno accompagnato la nostra cultura, con funzioni diverse. Poco prima dei robot di Čapek la letteratura aveva appena fissato due miti inossidabili tra cui il Golem – il romanzo di Gustav Meyrink del 1915 che faceva il punto su una leggenda ebraica secolare – e Frankenstein ideato da Mary Shelley. Tra il Golem e Frankenstein è soprattutto il primo a intravedersi dietro i Robot di Čapek. Come scriveva Angelo Maria Ripellino a proposito dei primi robot: «Questi automi appartengono alla stessa famiglia del Golem e, benché fabbricati in un’isola lontana, anno radici nell’humus, nel maleficio di Praga».
Come il Golem, infatti, anche il robot all’inizio è un servo ubbidiente, dal carattere torvo e vagamente sornione, ma il mostro asservito nel tempo cova una vendetta destinata a scoppiare. In piena pandemia, non passa giorno in cui non ci si interroghi sul ruolo dell’intelligenza artificiale e in cui non si leggano titoli come: “Intelligenza Artificiale in campo contro il coronavirus”. In che modo l’intelligenza artificiale oggi potrà venirci in aiuto? Saranno tanti gli aspetti coinvolti: «Per la ricerca del vaccino, per il contenimento, per la fase di riapertura.
Soprattutto l’intelligenza artificiale è importante per il tracciamento dei dati», diceva Ferruccio Resta, rettore del Politecnico di Milano, al Corriere della Sera qualche giorno fa. Piattaforme di intelligenze artificiali stanno imparando a riconoscere le caratteristiche che differenziano le radiografie di polmoni di affetti da coronavirus rispetto ai polmoni con sintomatologie simili; altre intelligenze artificiali sono in campo sottoforma di chatbot, per aiutare il paziente a valutare se i sintomi sono o no da Coronavirus. Ma soprattutto le intelligenze artificiali serviranno per la sorveglianza delle persone, con lo scopo di monitorare i movimenti del virus e degli individui. Lo spettro della sorveglianza delle creature artificiali sulla nostra libertà risveglia paure ancestrali.
È nel dna delle creature artificiali controllare gli uomini. Nel mito greco, Talos è un gigantesco automa di bronzo con il compito di sorvegliare l’isola di Creta, incaricato da Minosse. Talos fa il giro dell’isola, controlla gli abitanti, tiene lontani pericolosi invasori in arrivo con le navi dal mare. Esiste una tradizione, che si perde nella memoria della civiltà, di custodi meccanici, cani d’oro costruiti da Efesto, vacche di metallo animate, statue che cantano, un esercito declinato in mille esseri innaturali: tutte sentinelle capaci di percepire pericoli e avvisare i loro capi. L’intelligenza artificiale è l’ultima faccia di questi guardiani senza anima.
Il cuore del dibattito sulle app per monitorare i nostri spostamenti è inevitabilmente l’equilibrio tra sicurezza e diritto, tra libertà, sorveglianza, e privacy. «È vero che ci saranno disoccupati, ma solo perché non ci sarà bisogno di lavorare e faranno tutto gli organismi. I robot ci vestiranno e ci sfameranno, costruiranno le case per noi, terranno i conti, faranno le pulizie», questa l’utopia che inseguono i fabbricatori di Robot nel dramma di Čapek. Ovviamente questo paradiso zuccheroso si rovescia presto in tragedia. Nel dramma R.U.R gli uomini diventano superflui, diventano una specie in via di estinzione, mentre una nuova generazione di robot acquista la consapevolezza della superiorità nei confronti dell’umanità e le tinte dello scenario volgono verso lo spaventoso.
A cento anni da quel 1920, Čapek risulta essere un autore incredibilmente attuale. Oltre al libro La guerra delle salamandre – sulla scoperta di rettili intelligenti che presto vengono sfruttati e si ribellano – e alla commedia L’affare Makropulos sulla possibilità di allungare magicamente la vita, scrisse anche un dramma intitolato Il morbo bianco. In questa opera, una pandemia colpisce l’umanità manifestandosi sottoforma di macchie bianche sulla pelle. La peste bianca colpisce le persone che hanno più di quarantacinque anni e le uccide.
Il medico che trova la cura si rifiuta di darla al dittatore finché il dittatore non si dichiarerà contro la guerra in atto. In tutta l’opera di Čapek è in scena il progresso che si ribalta in panorami inquietanti, con l’ombra del totalitarismo sempre all’orizzonte e masse di sfruttati stordite da promesse di felicità che si rivelano incubi. I robot arrivano per salvare l’umanità ma la spazzano via, come spesso i custodi si sono trasformati in minacce. È l’attitudine di molte le creature artificiali spogliarsi della servile obbedienza e mostrare un lato irrazionale, inquietante, un desiderio spietato di sostituirsi all’uomo che in breve fa vacillare la libertà umana.
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