Una rivoluzione copernicana sta capovolgendo le sorti e i valori connessi con la guerra in Ucraina, pronta a modificare tutte le nostre certezze. In breve: il tipo di pace affaristico e brutale che offre Donald Trump sembra prevalere sui sacri princìpi di libertà e indipendenza. Putin ci sta: lo scambio materiale fra business e valori si può fare e dunque Mosca dà luce verde, ma vuole la sua quota di business insieme agli americani nelle zone di Ucraina già conquistate dai russi. Lo zar ha detto alla televisione di Stato russa che per lui va bene: si smetta pure di combattere, ognuno resti dove si condividono i frutti delle terre rare ucraine, che valgono molto più dell’oro perché sono indispensabili per i microchip. Riecheggiano le parole di Evgenij Prigožin, il comandante dei mercenari della Wagner, quando si ribellò a Mosca prima di essere fatto fuori con una bomba sul suo aereo: “Vladimir Vladimirovič Putin – disse alla radio – la gente che ti ha spinto all’invasione dell’Ucraina per impadronirsi delle sue ricchezze ti ha manipolato e tu stai facendo una guerra sbagliata e figlia dell’avidità dei tuoi oligarchi”.

La mossa di Macron

Putin si è fatto intervistare per dire che è d’accordo su ciò che Trump aveva detto al presidente francese. Che cosa era successo? Era successo che Emmanuel Macron era corso a Washington per proporre a The Donald l’uso di un contingente militare europeo una volta arrivati al cessate il fuoco. “Perché no?”, ha risposto Trump. Ma bisogna sentire Putin se a lui va bene. E ora la grande notizia: lo zar non soltanto ci sta, ma ha anche rilanciato per dire agli americani di voler partecipare allo stesso business, portando in dote i territori ucraini conquistati a prezzo di un milione fra morti e feriti: “Facciamo un’unica joint venture e chiudiamo insieme questa sporca guerra”. Putin gradirebbe però che Zelensky si levasse di mezzo e ha accennato anche al suo candidato preferito: l’attuale ambasciatore ucraino a Londra, Valerij Zalužnyj, che lui amerebbe vedere presidente. Ma Zelensky vende cara la sua pelle e corre anche lui a Washington, come fanno in disordine sparso i premier europei, fra cui il primo ministro inglese Keir Starmer, anche lui pronto a inviare soldati come forza di peacekeeping. Ma chi ha sbloccato la soluzione è stato proprio il presidente Macron con i suoi modi formalmente gentilissimi. “Dear Donald”, sono state le parole da lui pronunciate avviandosi a stringere la mano di Trump. I due sono stati molto fisici, tra strette di mano e pacche sulle spalle, e ieri era virale la foto della mano di Trump con un livido. Lunedì Emmanuel per quattro volte ha chiamato Trump “dear Donald”, abbandonandosi nel suo ottimo inglese alla rievocazione della storia comune di Francia e Stati Uniti. Ma i sentimenti hanno scarso potere quando sono in ballo le pepite delle terre rare, che costituiscono la vera posta in gioco.

Le richieste sulle Terre Rare

È bene ricordare la sequenza. Trump ha chiesto a Zelensky 500 miliardi in terre rare per compensare gli Stati Uniti di quanto hanno speso per la difesa ucraina. La risposta è stata che se ne poteva parlare, a condizione che gli americani in cambio garantissero la sicurezza militare nel caso in cui Putin volesse – dopo la pace – ritentare l’invasione. La risposta di Trump è stata: non manderò mai un solo soldato in Ucraina, ma non ci sarà bisogno di soldati perché creeremo in Ucraina un mondo pacifico di industrie, affari, miniere e ricchezza per tutti. Ma Zelensky ha tenuto duro: voglio garanzie scritte in cui si dica che noi cediamo lo sfruttamento delle terre rare in cambio di una difesa militare americana. Per ora Trump e Zelensky non hanno trovato un accordo. Ma ecco che arriva Putin che, con inattesa leggiadria, accoglie il progetto affaristico americano di un’Ucraina trasformata in un Eden minerario. Lo dice in televisione nel corso di un’intervista con un giornalista di Stato: “Sì all’idea di Trump purché ne benefici anche la Russia, sfruttando insieme agli americani anche i territori ex ucraini conquistati da Mosca”. Una proposta concreta e spudorata, con un codicillo: per fare questo passo avanti bisogna togliersi dai piedi Zelensky, perché quell’uomo è il campione della resistenza armata, un ruolo fuoricorso perché è finita la fase dei combattimenti e comincia quella degli affari veri, del big money e dunque dell’oblio. Ed è a questo punto che Trump gli chiede: “C’è Macron che vorrebbe mandare in Ucraina, se raggiungiamo l’accordo, un contingente francese e forse europeo. Si tratterebbe di un gesto del tutto simbolico, lontano dalla linea del fuoco: tu come la vedresti?”.

Poco dopo Trump ha annunciato, in una conferenza stampa a Washington, che Putin non ha obiezioni. A domanda specifica, ha risposto: e perché no? Quindi, se l’accordo si fa, dopo il cessate il fuoco Macron è libero di mandare un contingente simbolico e ben lontano dal fronte. E Trump fa capire benignamente che anche l’Europa – che non conta nulla – se vuole può spendere in simboli, piantare bandierine e diffondere discorsi sulla pace ottenuta come avvenne con Brenno, che gettò la sua spada sulla bilancia con cui pesare l’oro dei romani sconfitti.

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.