Se ti vota un “mafioso” automaticamente diventi mafioso. È quanto accaduto ad Antonio D’Alì, ex parlamentare di Forza Italia ed ex sottosegretario al Ministero dell’interno nel secondo governo Berlusconi. La sua storia giudiziaria è la seguente: assolto in primo e secondo grado. La Cassazione annulla e dispone un nuovo processo d’appello. Risultato? D’Alì viene condannato a sei anni di prigione per “concorso esterno in associazione mafiosa”. Dopo la conferma ieri della sentenza della Corte d’appello di Palermo da parte della Cassazione, D’Alì si è costituito nel carcere milanese di Opera.
La vicenda processuale dell’ex senatore originario di Trapani, iniziata ad ottobre del 2011, è semplicemente surreale. A giugno del 2013 i pm palermitani, ritenendo che la sua prima elezione in Parlamento nel 1994 fosse stata “appoggiata elettoralmente dall’associazione mafiosa”, in particolare dal super boss Matteo Messina Denaro, avevano chiesto nei suoi confronti la condanna a sette anni e quattro mesi nel procedimento con rito abbreviato. Il gup lo aveva assolto per i fatti successivi al 1994 dichiarando prescritti quelli precedenti. La sentenza, come detto, era confermata tre anni dopo in Corte d’Appello.
Per i giudici non era stato provato che D’Alì continuò ad avere dei legami con Cosa nostra, dopo la sua entrata in Senato. La condotta dell’imputato non può “essere significativamente assunta come sintomatica della volontà di permanere, sia pure come extraneus, nell’associazione mafiosa, fornendo un contributo al rafforzamento della stessa”, avevano scritto i giudici nelle motivazioni della sentenza d’Appello. A D’Ali, in particolare, veniva contestata una compravendita di un terreno a dei familiari del superlatitante di Castelvetrano.
L’appello della Procura generale veniva accolto fino all’annullamento disposto dalla Cassazione a gennaio del 2018. Nel provvedimento la Suprema Corte aveva voluto sottolineare che le motivazioni dei giudici di secondo grado avevano “illogicamente e immotivatamente svalutato il sostegno elettorale di Cosa Nostra a D’Alì“.
Ad agosto 2019 la sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Trapani gli aveva imposto l’obbligo di dimora in città per tre anni sostenendo la sua “pericolosità sociale”, misura poi revocata a inizio 2021 dalla Corte d’Appello. A luglio del 2021 ecco arrivare la condanna a sei anni. Nella requisitoria dell’appello bis, chiedendo a sette anni e quattro mesi di carcere, il pg aveva definito D’Alì “il politico a disposizione dei Messina Denaro, prima del vecchio don Ciccio e poi del figlio Matteo, tuttora ricercato”. E lo aveva accusato di aver “contribuito al sostegno e al rafforzamento di Cosa nostra, mettendo a disposizione dei boss le proprie risorse economiche, e, successivamente, il proprio ruolo istituzionale di senatore della Repubblica e di sottosegretario di Stato”. L’ex parlamentare aveva sempre respinto tutte le contestazioni.
Nel processo si era fatto ricorso a numerosi collaboratori di giustizia, uno dei quali aveva raccontato che tutto il ‘cerchio magico’ di Messina Denaro era presente alla festa per la prima elezione al Senato di D’Alì, nel marzo 1994. Testimonianza ritenuta attendibile.
Per i pm, il senatore trapanese, oltre al superlatitante Matteo Messina Denaro, avrebbe avuto rapporti con i boss Vincenzo Virga e Francesco Pace, fin dai primi anni ’90, e avrebbe cercato fin dagli inizi l’appoggio elettorale dei clan. Ma, a parte i voti eventualmente presi dai mafiosi, non è dato sapere quale sia stata la contropartita.
L’appoggio elettorale eventualmente fornito a D’Alì da Cosa nostra in occasione delle elezioni al Senato del 1994, “in considerazione della preponderante vittoria delle forze politiche di centrodestra non assurge di per sé ad elemento sintomatico di un patto elettorale politico-mafioso”, avevano scritto i giudici nella prima assoluzione. “Le condotte oggetto di contestazione – continua – non risultano essere compiutamente comprovate per mancanza di adeguati e specifici riscontri, negli interventi fatti da D’Alì, nella sua veste istituzionale, successivamente al 1994 appare difficile ipotizzare che lo stesso abbia inteso avvantaggiare l’associazione mafiosa piuttosto che taluni imprenditori che soltanto in epoca successiva sono stati condannati per associazione mafiosa”. Forza Italia nel 1994 aveva fatto il pieno. D’Alì 54mila voti. Tutti, evidentemente, di mafiosi invece per i giudici del secondo processo che hanno disposto la condanna, ribaltando l’assoluzione.
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