Il cardinale Matteo Zuppi non demorde. La sua missione, quella che gli è stata assegnata da Papa Francesco per la pace in Ucraina, è al centro dei suoi pensieri. E lo dimostrano le interviste e le frasi degli ultimi giorni. Dalla richiesta di una pace giusta e sicura per l’Ucraina da cercare “non con le armi ma con il dialogo” al ricordo dello “struggimento” del pontefice, fino alla sferzata all’Unione europea che “fa troppo poco” e che “dovrebbe fare molto di più” per cercare la pace, il presidente della Conferenza episcopale conferma, ancora una volta, il suo impegno per l’iniziativa diplomatica di Jorge Mario Bergoglio.

La speranza c’è, così come la consapevolezza delle difficoltà. La strada della pace non è solo in salita, ma ricca di ostacoli, e soprattutto difficile da perseverare nel momento in cui la differenza tra aggressore e aggredito pone tutti di fronte a una scelta drammatica: trovare il punto di incontro tra ricerca della pace e supporto a Kiev contro l’invasione. Evitando una pace che possa avere l’amaro sapore della resa. La scelta del Papa è dunque quella più difficile: la ricerca di una pace “creativa”, come ricordato da Zuppi nella sua intervista al Sussidiario.net, che sfida anche il pensiero di chi confonde il desiderio di dialogo con l’arrendevolezza nei confronti dalla Russia. L’iniziativa del pontefice è però anche un monito verso l’Europa, che rischia di essere travolta – anche politicamente – dal conflitto. La guerra si combatte nel Vecchio Continente.

Ma i tempi e la gestione del conflitto sono dettati ormai solo da potenze esterne ai suoi confini. L’Unione europea appare non solo poco incisiva nelle scelte, ma anche drammaticamente secondaria rispetto al ruolo che dovrebbe avere, anche solo per “competenza geografica” e culturale. Al punto che Bruxelles spera in iniziative altrui, statunitensi o addirittura cinesi. Il richiamo di Zuppi sembra ora una voce che grida nel deserto. Eppure, è un segnale da non prendere sottogamba. Di possibile negoziato per la “martoriata Ucraina” si inizia a parlare con sempre più insistenza anche in America. E le iniziative in tal senso rischiano di essere promosse da altri blocchi, in particolare da quel “sud del mondo” che si sovrappone sempre più chiaramente ai Brics guidati dalla Cin. E questo rischia di trasformare la pace in Ucraina in uno strumento per decidere il futuro dell’Europa al di fuori dell’Europa.

La mediazione di Zuppi può essere un ibrido tra una pace “europea”, seppure di un attore terzo come la Santa Sede, e una pace “non allineata”, per usare una definizione da Guerra Fredda? Difficile da dire. Certo è che il silenzio di Bruxelles potrebbe iniziare a farsi assordante nel momento in cui anche negli Stati Uniti analisti, militari e politici cominciare a far trapelare sempre più indiscrezioni sulle possibilità di una trattativa in virtù delle difficoltà della controffensiva ucraina. Le stesse che aveva previsto il generale Mark A. Milley, capo dello Stato maggiore congiunto Usa, e che aveva messo in guardia contro le previsioni fin troppo ottimiste riguardo la campagna estiva di Kiev. Infrangendo la linea dell’intransigenza sul conflitto, Milley, nonostante il ruolo di capo delle forze armate Usa e principale consigliere militare del presidente Joe Biden, si è sempre detto fermamente convinto del sostegno all’Ucraina ma anche consapevole dell’eventualità di una via d’uscita negoziale alla guerra.

Il generale termina il mandato a fine settembre, e proprio ieri ha avuto un incontro con Papa Francesco in Vaticano. È difficile ipotizzare una convergenza di intenti tra il generale e il pontefice: uno vertice militare di una superpotenza globale leader dell’Occidente, l’altro alla guida della Chiesa cattolica. Ma l’incontro a Roma sembra arrivare nel momento in cui i pensieri di due figure così differenti, unite dalla comune fede cattolica, sembrano essere simili. Intanto, mentre la via del dialogo continua a essere l’unica cercata da Zuppi e il Papa, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky prosegue nella sua missione: quella di convincere gli alleati a evitare che lo scetticismo prevalga sul sostegno militare all’Ucraina. A maggior ragione ora che dopo mesi di lotta tra campi minati, trincee e bombe, la controffensiva sembra essersi arenata confermando gli scenari di una drammatica guerra d’attrito. Il presidente ucraino ha ottenuto un risultato sicuramente importante sotto il profilo politico: il via libera agli F-16 da parte di Danimarca e Paesi Bassi dopo l’ok di Washington.

Il leader del Paese invaso è riuscito a strappare la promessa di ricevere da questi due alleati 61 caccia: 42 olandesi e 19 danesi. Il problema rimane però sempre lo stesso: la velocità dell’addestramento e della consegna dei jet. Due elementi che cambiano la percezione dell’accordo. Le parole della premier danese Mette Frederiksen, pronunciate in conferenza stampa con Zelensky, aiutano a chiarire la questione. Copenaghen si aspetta di consegnare i primi sei aerei entro la fine dell’anno, otto nel 2024 e altri cinque nel 2025. Se l’addestramento dei piloti ucraini inizia ora, serviranno molti mesi prima che i jet siano utilizzabili in modo ottimale contro le forze russe, sicuramente non prima della fine dell’autunno e forse nemmeno dell’inverno. A questo si aggiunge la necessità di basi sicure e di una logistica efficiente. Con il rischio che la consegna degli F-16 arrivi non solo tardi, ma anche dopo un ulteriore tributo di sangue del popolo ucraino.

Lorenzo Vita

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