L'editoriale
Il fallimento della prima task force della storia: i tumulti del pane del 1628

Egregio direttore, Il Riformista è stato uno dei primi quotidiani ad approfondire il ruolo di sostanziale surroga del Parlamento e più in generale della politica, che stanno assumendo i tecnici nella delicata e drammatica contingenza che attraversa il Paese a causa del coronavirus. C’è stata, infatti, una lunghissima fase in cui le Camere sono apparse se non “esautorate”, come ha sostenuto Angela Azzaro su queste colonne, quantomeno in “surplace” come quei ciclisti che – pur stando in gara – restano in piedi sui pedali completamente fermi.
I presidenti delle nostre Assemblee sono stati presi in contropiede dall’epidemia e non hanno dimostrato di saper tutelare fino in fondo il ruolo assegnatoci dalla Costituzione mobilitando, come sarebbe stato necessario, l’intero Parlamento nell’assunzione di responsabilità e misure per fronteggiare la crisi. Basti pensare che ancora qualche giorno fa, ad oltre un mese dall’inizio del lockdown, i vertici del Senato volevano sapere dal Governo (sic!) quali fossero i margini di spostamento (cioè di libertà) dei propri rappresentanti.
Naturalmente non si vuole qui criticare il contributo che esperti di chiara fama possono dare nel momento in cui si è chiamati a decidere sulla salute dei cittadini o alimentare il timore che i “tecnici” possano soffiare il posto a qualche ministro se non aspirare alla Presidenza del Consiglio come qualche commentatore sta insinuando con crescente insistenza. Certo, abbiamo autorevolissimi precedenti, a partire da Dini, ma è altrettanto vero, per restare a tempi più recenti, che Renzo Piano ha regalato all’Italia ed a Genova il progetto per uno splendido ponte sul Polcevera senza pretendere, con ciò, di essere nominato ministro dei Trasporti.
Semmai a preoccupare – di fronte al proliferare di commissioni ed al moltiplicarsi di esperti di ogni genere a livello centrale e locale – è la babele che si sta creando a discapito della velocità con cui, nelle emergenze, occorrerebbe agire.
Quello che nessuno dice, a mio avviso, è che dopo la vicenda dell’ex sindaco di Genova, Marta Vincenzi, non c’è in Italia un solo sindaco o un solo amministratore o governante che non cerchi di coprirsi le spalle con uno o meglio più “pareri” utili a dimostrare, nell’immancabile inchiesta che fa da corollario a qualsiasi evento accada nel territorio o nella materia gestita, la propria buona fede.
Dopo la condanna a cinque anni di carcere per l’alluvione del 2011 dell’ex primo cittadino di Genova, infatti, non c’è stato sindaco che non abbia chiuso le scuole del proprio Comune di fronte ad un allarme giallo lanciato, magari a vanvera, dalla protezione civile. Curiosamente, l’unica circostanza in cui i tecnici – in questo caso magistrati, avvocati, garanti dei detenuti, ecc. – non vengono ascoltati e neppure scattano inchieste e sequestri, è quella che riguarda l’ingiusta e pericolosa condizione dei detenuti.
Ma questo dimostra soltanto che è la “politica” a dover decidere, senza abiurare ad un ruolo che le è assegnato dalla Costituzione e che rappresenta l’essenza e la rappresentazione più autentica della democrazia. “La storia insegna ma non ha scolari”, diceva Gramsci, ed è tanto vero che nessuno, in questi giorni, ha ricordato come, a provocare la rivolta di Milano nel 1628 descritta dal Manzoni, fu l’improvvida decisione del Cancelliere Antonio Ferrer di chiedere ad un Comitato di esperti la fissazione del prezzo del pane che da lui stesso era stato giustamente calmierato.
Gli “esperti” dell’epoca decisero di tornare al valore di mercato, spingendo così sulle barricate i cittadini milanesi ridotti alla fame e decimati dalla peste. Se la politica non vuole rivedere i cittadini in strada con i forconi recuperi la sua essenza e torni ad assumersi, senza paura, le proprie responsabilità.
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