Sui giornali li chiamano nei modi più disparati: commissione, comitato, task force, gruppo di esperti. Sono i tecnici – professori di diverse discipline, dall’economia alla psicologia – che guidati da Vittorio Colao, ex ad di Vodafone, dovrebbero decidere come affrontare la fase 2 dell’emergenza Covid-19. Non è ancora chiaro con quali poteri, se solo consultivi o con poteri addirittura ministeriali. Sono stati nominati direttamente dal premier Giuseppe Conte ma non si capisce in riferimento a quale norma. A parte la velleità di affidare a un gruppo così ristretto la “ricostruzione”, anzi addirittura nel futuro “il cambiamento dell’Italia”, è l’ennesima volta – in questa crisi – che il Parlamento viene messo da parte, calpestato, umiliato. Certo che gli esperti servono, certo che il sapere specialistico è importante e che “uno non vale uno”.

Ma una commissione di esperti poteva nascere coinvolgendo il Parlamento, permettendo a maggioranza e opposizione di proporre i propri nomi, di discutere sulle funzioni che una commissione di tecnici dovrebbe svolgere. Il percorso decisionale è stato invece del tutto estromesso a discapito della democrazia rappresentativa. Fin dall’inizio della crisi, con la scusa dell’emergenza, Camera e Senato sono diventate mute e con loro è diventato muto il popolo sovrano di cui, secondo la Costituzione, sono rappresentanti. Il potere è stato spostato unicamente sul governo, non in quanto guida politica, ma in quando sede della “competenza tecnica”. Aveva ragione, su queste pagine, Paolo Macry quando ha scritto che stiamo assistendo alla nascita di una nuova forma di populismo, un populismo tecnocrate che sta mettendo a rischio la democrazia.

Non è una esagerazione. I segnali si moltiplicano: le decisioni vengono calate dall’alto, non si discutono, possono essere solo ratificate e i rappresentanti democraticamente eletti contano meno di zero. Si arriverà a un punto in cui votare non varrà nulla, a tal punto che recarsi al seggio per esprimere la propria preferenza non avrà più valore. E allora: perché andare? Meglio stare a casa. Ogni giorno si assiste a un piccolo slittamento verso l’autoritarismo, ogni giorno si aggiunge un tassello che rende le istituzioni democratiche sempre meno importanti. Adesso la palla passa a Vittorio Colao, ottimo manager, non c’è dubbio, ma che deve prendere questa volta decisioni politiche. Il premier Giuseppe Conte che lo ha scelto personalmente è come se si fosse autocommissariato, abdicando anche lui al suo ruolo e screditando il governo a cui invece spetterebbe la costruzione della fase due in collaborazione con deputati e senatori.

Speravamo che la fine del populismo grillino portasse a una rivalutazione dei valori costituzionali e della politica. Invece si sta verificando un’altra dinamica, in cui la politica conta sempre di meno e con questa valgono sempre di meno le organizzazioni democratiche che la storia del Novecento ci ha consegnato. L’emergenza esiste. La pandemia è qui. Le misure di contenimento dovevano essere prese. Ma stiamo attenti, a risvegliarci un giorno e a ritrovarci privati della nostra libertà. Il confine tra scelte inconfutabili e autoritarismo a volte è molto sottile, quasi impossibile da decifrare, ma alla fine in questa vicenda il rischio è proprio quello di trovarci in un baratro da cui sarà difficile risalire.

Eppure i grandi quotidiani hanno salutato l’incarico a Colao come una grande occasione. Repubblica domenica titolava a caratteri cubitali “La terapia Colao”, riproponendo la ricetta dell’uomo forte al comando, del deus ex machina che può salvarci. Anche per questo la diretta tv di Conte, in cui doveva parlare del lockdown e l’ha usata per attaccare Salvini e Meloni, non va minimizzata. Ha creato un precedente molto grave che prescinde dalle regioni esposte dal premier. Un giorno ce ne ricorderemo, ma sarà troppo tardi,

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