Quale Italia verrà fuori dal tunnel del coronavirus? Quale sistema politico? Quale politica? Gli ottimisti (e i governativi) plaudono al ritorno delle competenze, al decisionismo governativo, all’Union sacrée. Ma i dubbi non mancano.  E il primo, il primo dubbio, riguarda l’incipit di questa storia, cioè il quadro politico che presentava il Paese al momento di entrare nel tunnel. Un quadro altamente contraddittorio, volatile e tetragono al tempo stesso. Ad affrontare la grande emergenza è stata infatti una coalizione composta dallo zoccolo duro della sinistra d’antan e da un movimento pentastellato fortissimo in Parlamento e debolissimo nell’opinione pubblica. Un bizzarro centrosinistra guidato dallo stesso premier del precedente centrodestra. E si sa (basta scorrere le cronache degli anni Trenta del Novecento) quanto sia pericoloso affidare la gestione di una crisi epocale a governi poveri di radici e privi di una leadership esperta.

Il secondo dubbio concerne quanto è accaduto e sta accadendo nel tunnel, cioè le politiche di queste settimane. Sebbene pasticciata e disomogenea, la compagine giallorossa ha scelto di fronte all’epidemia la linea dura. Ovvero la linea cinese. E l’adozione, sia pure edulcorata, della linea cinese ha significato sospendere una quantità di libertà individuali, entrare nel vivo dei diritti, incidere nella carne viva dei valori e dei comportamenti collettivi. E rischiare di indebolire la fisiologia della rappresentanza democratica.

Quei provvedimenti draconiani sono stati assunti attraverso momenti formali e sostanziali non sempre trasparenti, affidando al consiglio dei ministri il compito di ratificare decisioni già prese dai leader dei partiti, usando strumenti inusuali come i decreti del presidente del consiglio, limitando il lavoro delle Camere a un giorno alla settimana, facendole votare a ranghi ridotti.

Un sostanziale depotenziamento degli organi collegiali e assembleari. Ma oggi che la Cina comunista sembra in grande spolvero (anche sui media), bisognerebbe fare molta attenzione alle procedure democratiche. Bisognerebbe tenersi ben stretto, noi che possiamo, lo Stato di diritto. E le sue preziosissime forme. Tutto questo del resto è coerente con il terzo tassello del mosaico (che è poi il terzo dubbio di chi scrive): la nascita di un modello di governo fondato sul premierato.

Ma quanto atipico e politicamente ambiguo sia anche quest’aspetto è fin troppo chiaro. Chi propone oggi una simile torsione della costituzione materiale è un premier sui generis, privo di legittimazione popolare, senza un partito alle spalle, indistinto perfino nella sua appartenenza alla destra o alla sinistra. Un premier, inoltre, macchiato dall’ombra originaria del trasformismo.

L’opposto di una leadership maturata secondo la logica e le procedure della storia politica repubblicana. Anche il premierato forte appare come un’ipotesi spuria, difficile da stabilizzare, e ogni paragone fra Prodi e Conte appare azzardato, sia per lo spessore delle personalità, sia per l’assai differente retroterra politico-culturale. Visto in una simile ottica, e tralasciando di considerare le opposizioni (del tutto afone, peraltro) il sistema politico italiano appare perciò come un castello di carte. Che fino a due mesi fa si reggeva grazie all’istinto di autoconservazione dei parlamentari e che oggi si regge grazie a una logica da gabinetto di guerra. Ed è evidente che tutto questo non basta. Soprattutto non basterà quando il paese sarà uscito dal tunnel e vorrà ricostruirsi. Scarsa rappresentatività dell’esecutivo, esautorazione strisciante delle assemblee elettive, premierato di facciata non costituiscono un modello politico attendibile.