Diecimila morti, la sanità pubblica sottoposta a uno stress tremendo, migliaia di medici che rischiano (e perdono) la vita in trincea, l’intero Paese chiuso in casa. È una guerra, s’è detto. E in guerra vale l’obbligo della coesione nazionale, la lotta politica finisce tra parentesi, le opposizioni abbassano i toni. Right or wrong, my Country. Ed emergono nitidi i profili dei generali. È inevitabile, in tempi come questi, avere fiducia nei generali. Ed è comprensibile la popolarità del generale Giuseppe Conte, l’uomo che fin dall’inizio ci ha messo la faccia, che più volte ha voluto spiegare personalmente agli italiani quel che stava facendo per salvarli dall’abisso, il premier solenne dei messaggi televisivi, il giovane uomo in cashmere dei talk show.

Ha dimostrato coraggio mediatico, Giuseppe Conte. Gliene ha reso merito anche Ernesto Galli della Loggia. È emerso come nuovo leader del Paese, una bella sorpresa, una personalità destinata a ruoli importanti nell’Italia di domani, ha scritto Galli sul Corriere della Sera. Naturalmente, a parte le vittime e gli eroi di questa terribile congiuntura, non sempre le cose sono andate come le disegna la comunicazione di palazzo Chigi. L’Union sacrée ha avuto le sue incrinature. Conflitti sottotraccia hanno contrapposto le anime della maggioranza, Speranza e Conte, Conte e Gualtieri, la sinistra e i pentastellati. Conflitti espliciti sono sorti fra governo e Regioni, Roma e il Lombardo-Veneto, Roma e i governatori meridionali. Diversità di valutazione hanno caratterizzato lo stesso fronte delle competenze, i luminari, gli scienziati.

Pressioni sono venute dalle prime linee, medici senza respiratori, infermieri senza mascherine. L’Italia è stata presa a modello da tutti, ha rivendicato il governo. In realtà, la gestione dell’emergenza è apparsa costellata di errori, ritardi nei tempi di reazione, decisioni contraddittorie, fughe di notizie, strozzature logistiche, mancata sanificazione degli ospedali, pasticci nella raccolta dati, eccetera. Su questa filiera di criticità ha certamente pesato il carattere globale di un contagio violento, insidioso, sconosciuto.

E non di meno hanno pesato i difetti storici del sistema sanitario italiano, la sua frammentazione territoriale, i rapporti poco efficienti e molto costosi tra sanità pubblica e sanità privata, il sottodimensionamento dei reparti di terapia intensiva, la debolezza della medicina di base.

Con ogni evidenza, la gestione dello tsunami ha scontato tali e tante criticità. Sarebbe irrealistico e anche ingeneroso, oggi che il clima da Union sacrée sta venendo meno, attribuire gli errori commessi soltanto alle scelte del governo e al ruolo del generale Conte. E tuttavia appare non più procrastinabile l’apertura di un dibattito su quel che ha funzionato e quel che non ha funzionato. Soprattutto perchè, usciti dal tunnel, bisognerà mettere mano a una ricostruzione nazionale che si annuncia complessa e faticosa.

Faticosa socialmente, economicamente e dunque politicamente.Già, la politica. Nelle settimane scorse il coronavirus ha messo in mora la politica. Era l’unica strada? Forse sì. O forse bisognerebbe chiedersi se già ai primi segni della tempesta l’apnea della politica fosse davvero la scelta più opportuna. Forse bisognerebbe chiedersi come sarebbero andate le cose se il peso delle decisioni fosse stato assunto non soltanto dal governo, ma coinvolgendo formalmente l’intero arco parlamentare.

Come sarebbero andate le cose se per esempio il conflitto tra Stato e Regioni fosse stato metabolizzato responsabilizzando politicamente quelle forze politiche che da anni reggono le amministrazioni del nord. Certo è che, per un caso della storia o per l’ironia del cigno nero, la più grave crisi della storia italiana ha finito per essere affrontata da un governo politicamente poco omogeneo, da una maggioranza parlamentare poco rappresentativa dell’opinione degli italiani, da un partito di maggioranza relativa straordinariamente fragile perfino sul piano identitario, da una sinistra reduce da sconfitte elettorali e dolorose scissioni. E da un leader, il generale Conte, che al di là delle doti personali non aveva alcun pedigree politico o amministrativo, né alcun partito alle spalle. Un leader macchiato dall’operazione trasformistica dello scorso agosto.