Vincenzo De Luca non perde occasione per magnificare le sorti della Campania alle prese con la pandemia. Modello, miracolo, esempio di efficienza: ecco le espressioni utilizzate dal governatore che non manca mai di sottolineare come, in più di una circostanza, la Regione abbia adottato misure più severe di quelle varate dal Governo nazionale. Eppure basta analizzare i numeri per capire che la “strategia del lanciafiamme”, tutta misure draconiane e terrorismo psicologico, non paga.

Osserviamo le attuali condizioni della Campania. La regione è da tre settimane in zona rossa e le prime riaperture non dovrebbero scattare prima di un’altra quindicina di giorni, con buona pace di un tessuto economico e sociale ormai allo stremo. Il motivo? Insieme con la Calabria, la Campania fa segnare un indice di contagio tra i più alti in Italia, secondo soltanto a quello della Valle d’Aosta. Vuol dire che il Covid continua a correre, ma anche che la zona rossa disposta dal governo Draghi e più volte sollecitata da De Luca non è riuscita, almeno per il momento, a invertire il trend. Forse, tanto a Palazzo Chigi quanto a Palazzo Santa Lucia, avrebbero fatto bene a dare un’occhiata a uno studio firmato da tre esperti argentini, pubblicato dal Centre for economic policy research e rilanciato dal sito d’informazione Stylo24.

Dopo aver analizzato il livello delle misure restrittive varate in 152 Paesi dall’inizio della pandemia al 31 dicembre scorso, gli autori della ricerca sono giunti alla conclusione che, dopo 120 giorni, la chiusura totale ha un effetto estremamente lieve sull’andamento dei decessi e che  non ha un impatto significativo sulla curva dei contagi. Ergo, quanto più lunga è il lockdown, tanto più modesta è la riduzione del numero di decessi e nuovi casi di Covid. È esattamente ciò che sta avvenendo in Campania dove, dopo tre settimane di zona rossa, l’indice Rt è ancora superiore a quota 1. Ma se è vero che le chiusure prolungate e generalizzate non riescono a contenere la diffusione del Covid, è altrettanto evidente come esse siano perfettamente in grado di devastare il tessuto produttivo campano.

Secondo Confcommercio, nelle ultime tre settimane sono andati in fumo due milioni di fatturato per i negozi di abbigliamento, calzature e gioielli. E complessivamente, stando ai dati di Confesercenti, nella nostra regione sono 50mila le imprese a rischio chiusura e 150mila le famiglie di lavoratori in difficoltà. Di qui la protesta dei commercianti che oggi riapriranno provocatoriamente alla clientela e che domani faranno sentire la propria voce in piazza del Plebiscito. Che cosa vuol dire? Che la chiusura prolungata e generalizzata di attività e servizi non può essere l’unica strategia di Regione e Governo davanti al virus. Sono indispensabili misure che consentano alla popolazione di condurre una vita più o meno normale fino a quando la guerra contro il Covid non sarà vinta.

Gli studiosi argentini suggeriscono «restrizioni rigorose ma brevi», soprattutto nei Paesi dove la campagna vaccinale va a rilento. Noi andiamo oltre, ribadendo la necessità di ingressi scaglionati nelle scuole e negli uffici, riorganizzazione degli orari di studio e di lavoro, rafforzamento del trasporto locale affiancando i driver privati ai mezzi pubblici, sanificazione dei locali frequentati da pubblico e qualsiasi provvedimento dovesse rivelarsi utile a contenere il virus senza devastare l’economia, la psiche e i diritti dei cittadini. In quel caso sì che la Campania diventerebbe un modello.

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Classe 1987, giornalista professionista, ha cominciato a collaborare con diverse testate giornalistiche quando ancora era iscritto alla facoltà di Giurisprudenza dell'università Federico II di Napoli dove si è successivamente laureato. Per undici anni corrispondente del Mattino dalla penisola sorrentina, ha lavorato anche come addetto stampa e social media manager prima di cominciare, nel 2019, la sua esperienza al Riformista.