La Corte costituzionale ha reso note le motivazioni della sentenza (n. 198/2021) con la quale ha rigettato alcune questioni di legittimità costituzionale della disciplina dei Dpcm, gli atti del presidente del Consiglio, che hanno pesantemente condizionato le nostre vite dall’inizio della pandemia. Oggi come sappiamo i Dpcm sono stati superati dalla scelta del governo Draghi di adottare al loro posto dei veri e propri Decreti-legge, sottoposti alla conversione del Parlamento. La decisione della Corte è comunque importante perché offre chiarimenti sul passato, ma soprattutto definisce le coordinate per interventi futuri.

Rispetto al comunicato stampa adottato nell’immediatezza della decisione, dal quale poteva sembrare che ci fosse un’assoluzione totale dei Dpcm, la sentenza depositata oggi si mostra più articolata. Innanzitutto la Corte espressamente esclude dal proprio esame la questione se l’uso combinato di decreti-legge/Dpcm abbia violato le riserve di legge previste dalla Costituzione, a tutela del ruolo del Parlamento, nelle materie interessate dai provvedimenti emergenziali ( ad. es. 14, 16, 17, 41, 23, 25 Cost.). Un tema ovviamente cruciale e decisivo, sul quale però la Consulta non si è potuta pronunciare perché quei profili di costituzionalità non erano, in questa occasione, contestati. La questione all’esame del giudice delle leggi riguardava, infatti, solo la legittimità del meccanismo decisionale previsto dai decreti-legge emergenziali. Tale meccanismo attribuiva, come sappiamo, al presidente del Consiglio il potere di adottare decreti provvisori a due condizioni: a) che le misure limitative fossero tra quelle astrattamente indicate dagli stessi decreti-legge; b) che la scelta su quali misure adottare (più o meno limitative), tra quelle consentite, fosse ancorata ai principi di proporzionalità e adeguatezza rispetto ai rischi effettivamente presenti nel contesto pandemico.

La Corte sul punto ha riconosciuto la legittimità del meccanismo (fatta salva la questione delle possibili violazioni della riserva di legge). Innanzitutto perché ha qualificato i Dpcm come atti amministrativi e non come atti legislativi o normativi. In secondo luogo perché ha ritenuto la discrezionalità (amministrativa) del presidente del Consiglio adeguatamente limitata dalle due condizioni indicate. Si tratta di conclusioni cariche di conseguenze. La prima (i Dpcm come atti amministrativi) cancella definitivamente ogni distinzione sostanziale tra norme e provvedimenti. Anche i provvedimenti amministrativi possono essere a destinatario indeterminabile, in quanto (seppur temporanei) a struttura generale e astratta, così come le norme possono essere individuali e concrete. Si tratta di un punto di approdo di un lungo processo (particolarmente rilevante in Italia) che però dovrebbe prima o poi forse farci ripensare radicalmente il modello dello Stato costituzionale liberal-democratico così come lo abbiamo conosciuto sinora. Un solo esempio, per capirci: se viene violata una norma, il cittadino ha diritto di ricorrere fino in Cassazione invocando una violazione di legge (art. 111, comma 7, Cost.), nel caso di provvedimento amministrativo, no.

In secondo luogo la decisione della Corte valorizza, per giustificare la legittimità dei Dpcm, il presupposto che essi siano stati adottati rispettando i principi di adeguatezza e proporzionalità. È evidente che siamo qui in presenza di un criterio molto delicato, perché scivoloso e sfuggente. Per questo l’ordinamento richiede una motivazione particolarmente accurata per dimostrare la sussistenza di tali requisiti. Una motivazione che, nel caso dei Dpcm avrebbe dovuto essere fondata sulle valutazioni del Cts. Peccato che i verbali del Cts siano rimasti a lungo riservati. Sconosciuti al Parlamento per molti mesi e praticamente resi noti sempre dopo la scadenza del Dpcm che avevano “valutato”. A leggerli, poi, è difficile non riscontrare una genericità o persino totale assenza di motivazione. Queste incongruenze, ovviamente, non spettava alla Corte costituzionale sindacarle.

Forse semmai sarebbe stato opportuno un monito alle altre istituzioni perché quel presupposto, decisivo per l’ammissibilità di atti amministrativi così particolari e penetranti, sia rigorosamente applicato e valutato. Perché il confine tra discrezionalità amministrativa e opportunità politica sta proprio in questo, che l’uso della discrezionalità amministrativa va motivata e dev’esser sindacabile. Parafrasando Popper, dev’essere “falsificabile”. Se evanescente, trascolora facilmente in attività politica, e in tal caso, siamo fuori dalla sfera degli atti amministrativi. O almeno così dovrebbe essere.